“È un colpo di teatro”. Vittorio Sgarbi in purezza. Sale sul palco de La Ripartenza, l’evento milanese organizzato dall’amico Nicola Porro, e ha pienamente coscienza del cinema che sta per mettere in moto. Esaminato l’affaire Sgarbi, appare difficile sostenere che “con la cultura non si mangia”. Sedici, in tutto, gli incarichi e le poltrone, oltre a quella di sottosegretario alla Cultura del Ministero guidato da Gennaro Sangiuliano. E una considerevole lista di attività tra ospitate televisive, lectio magistralis, conferenze e interventi a vario titolo come critico d’arte lautamente pagati con cachet d’oro, in barba alla legge Frattini che vieta “attività professionali in materie connesse alla carica di governo”, versati a società direttamente riconducibili al suo capo segreteria al dicastero e collaboratore di stretta fiducia, Nino Ippolito, e alla sua compagna Sabrina Colle, che poi si occupavano di utilizzarle per conto del sottosegretario, per coprire ad esempio abbigliamento e affitti ma non solo. Un attimo prima che la delibera dell’Antitrust irrompesse, Vittorio Sgarbi ha fatto il passo indietro, rassegnando le dimissioni immediate dal governo Meloni. Le sessanta pagine, riportate in integrale dal Corriere della Sera, della delibera dell’Autorità garante per la concorrenza e il mercato sono in effetti un atto d’accusa preciso e circostanziato per il critico costretto a lasciare, come già avvenuto nel 2002 durante il governo Berlusconi. Sgarbi ha annunciato ricorso al Tar, a tutela del diritto costituzionale di manifestazione libera del pensiero, ma la sua posizione va a sbattere contro i circa 300mila euro incassati in meno di un anno, difficili da giustificare per chi ricopre un incarico pubblico. Continua su Huffington Post