E se ci fosse una sottile linea di collegamento fra il compleanno del magnate giapponese e il rimpasto al Comune di Palermo? Non è possibile, direte voi. E in effetti l’ipotesi suona, quanto meno, parossistica. Ma la reazione avvelenata e rancorosa di Schifani e il quadro che si delinea a Palazzo delle Aquile, con le micce già incandescenti tra Forza Italia e Fratelli d’Italia, stupiscono per il tempismo. La polemica cade a fagiuolo, anzi restituisce l’esatta fotografia di cosa voglia dire, da un anno a questa parte, governare la Regione. Il presidente Schifani, anziché chiedere ad Andrea Peria, sovrintendente della Sinfonica, perché non sia stato allertato dell’affitto del Politeama (sfregiato da un sovrappalco), ha preferito far risaltare un altro aspetto di questa vicenda grottesca: “Io avrei preteso la concertazione, una maggiore collaborazione e l’elenco degli invitati”, ha detto a Live Sicilia.

In quella lista il suo nome non compare. Piccolo excursus significativo: qualche mese fa, alla vigilia di un’inaugurazione organizzata da Tommaso Dragotto (il ‘mancato’ direttore generale dell’Irfis nonché patron di Sicily by Car), Schifani ottenne di visionare in anteprima la lista dei commensali, e di (far) escludere Gianfranco Micciché, col quale era in rotta di collisione. Ecco: sulla base di questa esperienza, è facile dedurre che il governatore, nelle vesti di governatore e niente più, avrebbe voluto esserci. Così non sarà. E non potendo puntare il dito su Mister Nakajima – chi lo conosce questo 73enne giapponese con 1.400 persone al seguito? – ha preferito rivalersi sul sindaco Roberto Lagalla, che invece incontrerà il magnate a Villa Niscemi il 4 novembre. “Perché due pesi e due misure?”, avrà pensato Schifani…

Da qui la polemica con annesse polemiche strampalate: “Reputo francamente eccessiva ogni preoccupazione per la sicurezza”, ha replicato Lagalla. E se lo dice il responsabile comunale di Protezione civile, c’è da crederci. Il sindaco, piuttosto, sarà preoccupato, se non addirittura terrorizzato, per l’atteggiamento dei due partiti di maggioranza relativa che si giocano la quarta poltrona nella sua giunta. Fratelli d’Italia, dopo aver soffiato Andrea Mineo ai rivali di Forza Italia, pensava di poterla conservare (con deleghe annesse). Ma il presidente della Regione e il suo capo di gabinetto, Marcello Caruso, rivendicano l’ingresso in squadra di Pietro Alongi, il postulatore di sua santità Renato. E’ probabile che dopo aver resistito tanto, Lagalla finisca per cedere. “Non ha la copertura di un partito nazionale”, ha fatto rilevare recentemente Raffaele Lombardo, e non potrà assumersi la responsabilità di dire no al presidente della Regione. Il rischio calcolato è la fuga dei patrioti, ma questa è un’ipotesi su cui cominciare a ragionare da lunedì. Significherebbe dare avvio al lento tramonto di una legislatura partita sotto i peggiori auspici (ricordate le liti della vigilia sull’individuazione di un candidato di sintesi?).

A chiedere ostinatamente di ammainare la bandiera Mineo, più per i suoi trascorsi miccicheiani che per il suo presente meloniano, è stato Renato Schifani, che da presidente della Regione non ha pensato né operato da leader. E piuttosto ha prediletto una visione renato-centrica che sta provocando parecchi malumori anche alla Regione. Se a Palermo, inteso come Comune, il rischio calcolato è bloccare l’attività di Lagalla, a Palazzo d’Orleans il problema non si pone: perché il governo è paralizzato da quasi un anno appresso agli annunci, alla campagna elettorale, agli scontri sotterranei con gli alleati (da Fratelli d’Italia in giù).

L’ultimo, certamente il più pericoloso, è quello con Raffaele Lombardo. Il leader del Mpa non ha peli sulla lingua e nel corso dell’ultimo, illuminante discorso di fronte all’Assemblea degli autonomisti di Palermo, ha usato la sponda di Cuffaro – con cui i rapporti sono fradici da sempre – per sollevare una questione di grande attualità. Parlando delle ultime incursioni a Palazzo d’Orleans, sede della presidenza, Lombardo ha spiegato che è meglio che “ci vadano altri dirigenti, perché o accettiamo la logica del confronto politico franco e aperto, oppure non ha senso. L’autonomia – ha rimarcato – confligge con la pratica che io vedo esercitare indegnamente da quelle parti, dell’adulazione, della delazione e del servilismo. Se si preferiscono questi ‘valori’ noi non abbiamo dove andare, io da quelle parti non mi faccio sicuramente vedere”.

Un’altra polemica rovente, tutt’altro che esaurita, riguarda la sanità. La nomina dei nuovi manager, al netto della proroga dei commissari fino al 31 gennaio e degli incastri da trovare con gli alleati, è infuocata anche sul metodo. Lombardo pretende che i direttori generali siano pescati da una rosa complessiva di 87 nomi, giudicati idonei dalla commissione. Schifani, invece, ha pensato di restringere la lista ai 49 “maggiormente idonei”, non è ben chiaro secondo quale presupposto giuridico. Anzi sì: “Forse Lombardo non conosce la legge e non ha letto il bando che richiama la normativa nazionale”, ha spiegato il governatore. Difficilmente l’accusa cadrà nel vuoto.

Intanto, per cercare di smorzare il clima da ultima spiaggia, Schifani ha improvvisato l’ennesima fuitina al Mit per continuare a parlare di infrastrutture e di Ponte sullo Stretto. Ma più che altro – giurano i bene informati – per convincere il leader della Lega, Matteo Salvini, a frenare l’alleato autonomista, che col Carroccio ha appena chiuso un accordo federativo utile alla sopravvivenza per le prossime Europee. Diciamolo chiaro e tondo: senza l’apporto del Mpa, la Lega difficilmente riuscirebbe a eleggere un solo eurodeputato (nel 2019, prima del Salvini versione Papeete, furono addirittura due). Al vicepremier non conviene tirare troppo la corda. Nel breve comunicato dell’altro pomeriggio, però, ha provato a rinfrancare Schifani, al quale ha confermato “pieno apprezzamento per il lavoro del governo regionale”. Ma esattamente, di che lavoro parlava?