Nel pomeriggio più nero, a Renato Schifani sono arrivati tre schiaffi in pieno volto. Il primo riguarda il rinvio del Ddl Province in Prima commissione (una soluzione d’emergenza per provare a ricompattare la maggioranza); il secondo, però, rischia di lasciare il segno. E’ la bocciatura, col voto segreto, della norma “salva ineleggibili”, per cui tanto si erano spesi i deputati di Fratelli d’Italia. Fino ad abbandonare l’aula, il giorno prima, per non aver invertito la trattazione delle due norme. Il terzo schiaffo, che aumenta il rossore e la vergogna, è la dichiarazione di decadenza della commissione esaminatrice che aveva pasticciato sull’assunzione dei 46 forestali – previo concorso – lasciando che risultasse primo in graduatoria il figlio dell’ex dirigente del Corpo Forestale (che quella commissione l’aveva scelta). Il concorso andrà rifatto, la figuraccia resta.

Di storie e aneddoti, in questa mezza giornata, ce ne sarebbero talmente tante da scriverci un libro. A perdere, però, è la tracotanza di un presidente della Regione che dopo aver assistito al dibattito sulla Legge di Stabilità rintanato nei suoi uffici, si era presentato in aula per “intimidire” i deputati della sua maggioranza (così hanno detto Cateno De Luca e Gianfranco Micciché) e provare a raggiungere l’obiettivo: cioè fare felici i patrioti, che con la “salva ineleggibili” avrebbero conservato tre seggi (quelli di Giuseppe Catania, Nicolò Catania e Dario Daidone) e raddrizzato una norma di interpretazione autentica di cinquant’anni prima, ritenuta incostituzionale persino dagli uffici dell’Assemblea.

Con la supponenza di chi ignora (o calpesta?) le norme e la giurisprudenza, un pezzo del centrodestra aveva provato a stringersi a coorte per suggellare una delle pochissime iniziative assunte nel primo anno di legislatura: non a beneficio dei siciliani, ma della “casta”. Un orientamento confermato in ambienti romani, dove FdI aveva concesso il nullaosta all’operazione. Ne è venuto fuori un pomeriggio di scontri, di fregature e di ritorsioni che, in un paese normale, dovrebbe far prendere contezza (a un presidente) della realtà. E dire: abbiamo fallito. Adottando le conseguenze del caso. Questo però non è un paese, ma una regione a statuto speciale che si muove su un crinale di sofferenza mista a menefreghismo, dove una norma val bene un’impugnativa, e dove molti atti prodotti dall’Assemblea rischiano di infrangersi sul muro di gomma della legge.

Accadrà anche per il Ddl sulle province: non solo la Sicilia ha evitato di adeguarsi alle sentenze della Consulta, che ha chiesto più volte di nominare i vertici degli enti d’area vasta mediante elezioni di secondo livello (cioè facendo votare sindaci e consiglieri comunali) ed evitando il ricorso a lunghi commissariamenti; ma si è arrogata il merito di fare da apripista a un ritorno frenetico di sprechi e di poltrone (circa 300),  puntando sulla parola di alcuni ministri come Calderoli e andando in contrasto con le leggi vigenti (la Delrio, che il parlamento non ha abrogato). Lo spirito costituzionale di questa Assemblea consiste nel fare poco e nel fare male. E la presenza in aula di Schifani, da parte di certi commentatori (leggasi Gianfranco Micciché), è stata ritenuta “una sfida alla magistratura”.

La magistratura ha dato torto alla Sicilia su più fronti. Qualche giorno fa l’ultimo episodio, relativo alla spalmatura del disavanzo: il decreto legislativo del 27 dicembre 2019, che avrebbe consentito all’Isola di rateizzare il deficit in dieci anni, andava contro i principi di equità intergenerazionale ed è stato giudicato illegittimo. La decisione dei giudici, unita ai pronunciamenti della Corte dei Conti (con la mancata parifica degli ultimi due rendiconti), alle sentenze dei Tribunali del Lavoro o dei tribunali ordinari (ad esempio sull’annosa questione dei dirigenti di “terza fascia”, che non potrebbero ambire alle posizioni apicali dei dipartimenti), anticipano una questione che i nostri politici non hanno mai messo in agenda: cioè la questione morale.

Una pretesa di legalità, di trasparenza, di buona condotta che non prescinde direttamente dalle sentenze della magistratura, ma che andrebbe applicata a qualunque ambito abbia a che fare con la pubblica amministrazione e la buona politica. Invece, esauriti i lavori d’aula da poche ore, il governo si è ritrovato (senza gli assessori in quota FdI, che minacciano la crisi) per ratificare le nomine dei direttori generali delle Aziende sanitarie e ospedaliere, maturate secondo un principio irreversibile, quello della lottizzazione fra partiti, e non basandosi sui meriti e sulle competenze dei singoli “concorrenti”. Il dato politico che emerge dal pomeriggio nero è che un governo di fatto non c’è: è dilaniato dalla rivalità interna e dai giochi di bassissimo cabotaggio fra i suoi rappresentanti più illustri. Ma soprattutto non c’è un governatore: una volta tanto che ha provato a metterci la faccia, la sua squadra ne è uscita a pezzi. Sarebbe stato più onorevole perdere a tavolino.