Alla Regione ultimamente non ne va bene una. Nemmeno con la Corte Costituzionale. Con l’ultima sentenza, la n.252, è stato cassato il tentativo del precedente governo, diretto da Nello Musumeci, di riaprire una finestra del condono edilizio del 2003 a tutti gli edifici abusivi costruiti in aree a vincolo paesaggistico, culturale o idrogeologico. Diciamocela tutta: la contingenza temporale, dopo le undici vittime di Ischia, non si addiceva granché alle speranze della Sicilia (o meglio: di chi l’ha amministrata fino a settembre). Nell’Isola gli abusi, 32 mila quelli conteggiati dal Siab (sistema informativo abusivismo) sono inversamente proporzionali alle demolizioni. Le ordinanze, infatti, vengono puntualmente ignorate, i comuni non hanno i soldi, e le tragedie – come accadde nel 2018 a Casteldaccia – sono sempre dietro l’angolo.

Ma al di là del caso di specie, le asinerie del legislatore (regionale in questo caso) non si contano nemmeno più. La Corte costituzionale rappresenta l’estrema ratio, quella da cui non si può tornare indietro. E’ successo, per venire ai fatti più recenti, nel febbraio 2021, quando la Consulta dichiarò incostituzionale la legge regionale n.13/2019 in materia d’appalti, nella parte relativa ai processi d’aggiudicazione dei lavori pubblici. I primi due commi dell’articolo 4, infatti, eccedevano dalle competenze statutarie, giacché la tutela della concorrenza era una materia prettamente statale.

Qualche mese fa, invece, l’organo retto da Giuliano Amato (sostituito in seguito da Silvana Scerra) dichiarò l’illegittimità costituzionale dell’articolo 3 della legge regionale 17 del 21 luglio del 2021, stabilendo che non si possono rilasciare concessioni ai lidi balneari in assenza dei piani di utilizzo delle aree demaniali marittime. Non sono ammesse deroghe, neppure per coloro che hanno ottenuto il via libera durante la pandemia Covid.

A novembre di quest’anno, invece, la Consulta ha adottato un provvedimento che è costato alla Sicilia 250 milioni d’accantonamento nelle ultime variazioni di bilancio: i giudici infatti hanno accolto il ricorso presentato dalla procura generale della Corte dei Conti, relativo al Rendiconto 2019, e dichiarato illegittimo l’articolo 6 della Legge di Stabilità 2016 che aveva consentito alla Regione di utilizzare le risorse del Fondo sanitario “per il finanziamento delle quote residue di capitale e interessi del prestito”. In base a quella norma, approvata in epoca Crocetta, la Sicilia aveva continuato a prelevare una cifra sostanziosa (127 milioni l’anno) dal Fondo sanitario per ripagare le rate di un mutuo contratto con lo Stato. Un utilizzo improprio, secondo la Corte. Quei soldi bisognava utilizzarli per garantire ai siciliani i livelli essenziali di assistenza (LEA). Punto.

Quest’ultima sentenza va a intrecciarsi con il destino economico-finanziario della Regione. Non c’è ancora una data, ma potrebbero essere i quindici togati a decidere sulla sorte dell’Isola, determinando l’arco temporale entro cui andrà ripianato il maxi disavanzo da 2,2 miliardi, finito al centro del giudizio di parifica (sospeso) della Corte dei Conti. Lo scorso 2 dicembre, infatti, le Sezioni riunite hanno posto una questione di legittimità costituzionale sulla scelta del governo di rateizzare la cifra in dieci anni, anziché in tre. In base a un decreto legislativo che, a detta dei magistrati contabili, non costituirebbe motivo sufficiente per applicare una deroga. Schifani si attacca a quello e un paio di giorni fa, dopo aver raggiunto un accordo con Giorgetti per la concessione di 200 milioni una tantum, è tornato a chiedere una norma Salva-Sicilia “che rimuova gli effetti della inopinata sospensione del giudizio del consuntivo 2020 da parte della Corte dei Conti che ha impugnato davanti la Corte costituzionale un provvedimento legislativo a firma Conte-Mattarella”.

Non sarà facilissimo, perché nella sua relazione la Corte dei Conti ha evidenziato come “la possibilità dell’ammortamento decennale era espressamente subordinata alla sottoscrizione, entro novanta giorni – a partire dal 27 dicembre 2019 e con scadenza il 26 marzo 2020 – di un accordo tra la Regione siciliana e lo Stato finalizzato a garantire il rispetto di specifici parametri di virtuosità mediante la concordata definizione di appositi interventi di riforma, verificandosi, in caso contrario, una riduzione del termine di ripiano da dieci a tre anni”. Mentre “l’Accordo in questione è intervenuto soltanto il 14 gennaio 2021, ben oltre il citato termine di novanta giorni”, motivo per cui “il ripiano decennale non avrebbe potuto trovare applicazione negli esercizi 2019 e 2020”.

Alla fine dell’istruttoria, sono emersi un paio di dubbi di legittimità costituzionale: in primo luogo, “delle disposizioni che, approvate nel 2021, hanno agito in via retroattiva sulle variazioni di bilancio del 2020, con effetti modificativi dello stato del conto del bilancio alla data del 31 dicembre 2020, in potenziale violazione del principio dell’annualità del bilancio”; in secondo luogo, “delle norme di attuazione dello Statuto della Regione siciliana (art. 7 del d.lgs. n. 158 del 2019) e di quelle poste dal legislatore regionale in applicazione delle prime (art. 4 della legge regionale n. 30 del 2019), aventi ad oggetto il ripiano di una parte delle quote del disavanzo di amministrazione, per il potenziale contrasto con la competenza esclusiva del legislatore statale in materia di armonizzazione dei bilanci pubblici e per la lesione dei valori costituzionali dell’equilibrio e della sana gestione finanziaria, nonché degli interdipendenti principi di copertura pluriennale della spesa, di responsabilità nell’esercizio del mandato elettivo e di equità intergenerazionale”.

La questione si fa tecnica, al punto che viene difficile ipotizzare un intervento dello Stato, motu proprio, per risolvere il conflitto di poteri – come lo chiama Schifani – e d’interpretazione, fra ciò che stabiliva la norma e il modo (e i tempi) in cui la Regione ha scelto di aderirvi.Eppure l’emendamento in questione, che porta la firma di Tommaso Calderone (Forza Italia), è stato approvato in commissione Bilancio alla Camera. Autorizza la Regione “a ripianare in quote costanti, in dieci anni a decorrere dall’esercizio 2023, il disavanzo 2018 e le relative quote di disavanzo non recuperate alla data del 31 dicembre 2022”. Quest’ultima parte sanerebbe il gap contestato dalla Corte dei Conti per gli esercizi 2019 e 2020. Pericolo scampato, quindi?