Correva l’anno 1943. Nella notte tra il 9 e il 10 luglio una scampanellata energica e risoluta interruppe il mio sonno di bambina dodicenne. Mio zio prete si accertò dalla finestra, prima di aprire, dell’identità del disturbatore notturno.
“Che c’è – chiese lo zio prete – per venire a quest’ora?”
“C’è l’emergenza! – rispose un nostro parente – sono venuto a prendere le ragazze per portarle dai loro genitori a Montaperto.”
“L’emergenza? E da quando?”
“Non lo so. So che stanno sbarcando gli americani.”
Nella casa di via Saponara c’eravamo solo io e mia sorella, oltre lo zio prete e una vecchia domestica, che nel frattempo si era vestita e si copriva con un fazzoletto i capelli per apparire più ordinata.
Ci vestimmo in un attimo, e mentre pregavamo lo zio prete di venire con noi, rimuginavo nella mia mente quale significato potesse avere quella parola, a quell’ora di notte, usata con tanta dimestichezza da persone che solitamente parlavano il siciliano stretto. Ero solita fantasticare su ogni evento e immaginai qualcosa di terribile che ci costringeva a riunirci al resto della famiglia per affrontare insieme la morte. Mi sentivo quasi un eroina e cercai di consolare mia sorella che aveva diciotto anni, e che certamente avrebbe dovuto rinunziare per sempre ai suoi sogni di ragazza.
Il parente non ci scortò subito a Montaperto. Ci portò prima dalla nonna, che trovammo indaffarata a riempire sacchi di cibarie, raccomandando a tutti di non dimenticare lo zucchero nascosto dentro una giara insieme al caffè ancora da tostare. Ho ancora nelle orecchie la voce della nonna: “non dimenticate il caffè…”
Intanto si era fatto giorno. Mi affacciai alla finestra della cucina che guardava verso oriente per vedere gli aerei che volavano bassi sulla città e che sganciavano bombe che cadevano come pietre sulle case, sollevando polvere e boati.
“Incosciente!” mi sentii gridare da mia sorella, che intanto piangeva, pensando alla nostra casa e allo zio prete che vi era rimasto, ostinato a non lasciarla incustodita.
Ci mettemmo in cammino ed eravamo una grande tribù, con la nonna avanti che camminava piano e che teneva fra le mani la sua caffettiera preferita. La prima stazione fu la casa di campagna che sorgeva in un sito chiamato “l’isola”, ché era quasi del tutto circondato dal fiume Akragas, a metà strada fra Agrigento e Montaperto. Tutte le volte che attraversavo il fiume sapevo che era finita la discesa agevole e allegra per le mie gambe da bambina e che stava per iniziare la salita dura e faticosa, in cima alla quale stava Montaperto e la nostra casa di campagna.
Procedemmo tenendoci il più possibile lontani dalla trazzera “d’accurzu”, tagliando per la campagna di ristoppie bruciate e di stenti alberi di mandorlo, arrampicandoci talvolta sui muretti di pietra o infilandoci pericolosamente dentro strappi di filo spinato.
Arrivammo a Montaperto, finalmente, e tra le lacrime di gioia dei miei genitori e i loro abbracci mi accorsi di avere perso le scarpe. Le mie uniche scarpe. La mamma non si perse d’animo. Da una vecchia scatola di cartone ricavò le suole e tagliando a fasce un suo vecchio cappello di feltro, rimediò le tomaie. Furono i sandali più belli che io abbia mai posseduto.
Mio padre ci richiamò subito alla realtà. Sopra di noi, sul paese deserto si sentivano i sibili delle mitragliatrici e i forti tuoni di un cannone della contraerea che aveva la sua postazione a poche centinaia di metri dalla nostra campagna. Dirimpetto, il mare di Porto Empedocle sembrava più vicino che mai. Gli aerei nemici che coprivano lo sbarco riempivano il cielo limpido di quella giornata di luglio, seminando incendi e rovine.
Guidandoci attraverso il bosco di fichidindia mio padre ci condusse al rifugio che aveva approntato per noi. Era una grotta naturale scavata nella roccia di quella che noi chiamavamo “a rocca do baruni”: una montagnola pietrosa al centro della nostra campagna, dal culmine della quale si poteva controllare tutto il territorio a perdita d’occhio. Sull’altura, ricavando il materiale da antiche rovine, mio padre aveva fatto costruire “a rubiceddra”: la casetta della famiglia del guardiano a cui era affidata la vigilanza della proprietà.
Nascosti nella spelonca, stretti come sardine, con un fratellino di quattro anni che piangeva per la fame e strillava per tornare a casa, ci trovammo presto tra due fuochi: quello che veniva dalle navi alleate e quello della postazione d’artiglieria a due passi da noi, che si sarebbe poi arresa con l’onore delle armi.
Verso il mezzodì del dodici luglio, sembrò farsi notte: solo centinaia di bombe lanciate sulle nostre teste emanavano bagliori funesti. Il fragore era insopportabile. Per una veloce sortita dalla caverna, tanto per sgranchirmi le gambe, fui seguita da un aereo a bassa quota che mi mitragliò senza pietà. Due piccolissime schegge colpirono il mio braccio destro, lasciandomi un imperituro ricordo di quelle orribili giornate.
Fu allora che mio padre prese quella che gli sembrò la decisione più giusta per salvare la nostra famiglia, due genitori spaventati con i loro cinque figli: quattro ragazze ed un bambino. Vidi mio padre uscire risoluto dalla grotta e chiamare a gran voce l’unico abitante rimasto a Montaperto. Era un nostro fedelissimo uomo di fatica, ‘mpari Peppi “Castagnaru”.
L’uomo arrivò zoppicando. Gli si leggeva in faccia una stramaledetta paura: “Chi diciva, don Mimì?”
“Vieni con me” disse mio padre. E non aggiunse altro.
Arrivati a casa miracolosamente, mio padre prelevò un lenzuolo bianco da letto matrimoniale e proseguì in direzione del Calvario, il posto più alto di Montaperto, dove tre croci si levavano da sopra un muretto per i riti sacri del venerdì santo.
“Appendi questo lenzuolo alla croce più alta!” disse mio padre. L’uomo si mosse senza fiatare. Dopo qualche minuto, il nostro lenzuolo sventolava come una bandiera sulla croce più alta del posto più alto del paese deserto. Dopo un po’, avvertimmo sorpresi che il cannoneggiamento era cessato e gli aerei si allontanavano dalla zona, forse per cambiare bersaglio.
Mio padre venne a prenderci dopo un tempo che a noi sembrò interminabile. Disse che potevamo lasciare il rifugio e ritornare a casa.
“Cos’è successo?” chiese mia madre.
“Lo saprai!” fu l’unica breve risposta.
Mia madre, nel silenzio recuperato, in quella calma improvvisa che pareva più minacciosa del fragore delle bombe, andò in cucina a preparare qualcosa da mangiare dopo il lungo digiuno.
Bussarono ripetutamente alla porta, e mentre mio padre caricava il suo fucile da caccia, entrò minaccioso con la pistola in pugno un giovane miliziano in divisa. Lo riconoscemmo subito: era Pasquale, Pasquale “Virrineddra”.
“Perché ha issato la bandiera bianca? Chi si crede di essere? Io posso ucciderla seduta stante per tradimento, ne ho facoltà!”
E così dicendo puntò la pistola sul petto di mio padre.
Quella scena non la dimenticherò mai. La mano destra di mio padre, tormentata dal morbo di Parkinson, smise di tremare e si distese in tutta la sua vastità e le cinque dita vigorose e robuste si posarono sul volto dell’impetuoso fascista. Poi, con calma, senza scomporsi, mio padre lo afferrò per la giacca e lo spinse fuori dalla porta, facendolo barcollare: “Fuori da casa mia, verme!”
Quello uscì con passo marziale, gridando: “La faccio fucilare, subito la faccio fucilare!” Mia madre, sulla porta della cucina, col grembiule si asciugava le lacrime.
Nel pomeriggio vidi mia madre cercare vecchie scarpe e vecchi calzoni di mio padre, per vestire giovani militari che scappavano, buttando sui tetti delle case del paese le loro divise.
Verso l’imbrunire di quello stesso giorno gli alleati sfilarono sulla strada principale del paese. Ricordo che odiai quegli arroganti vincitori, perché li vidi maltrattare col calcio del fucile alcuni soldatini italiani prigionieri che si attardavano a bere un sorso d’acqua sull’uscio di casa nostra.
Non capivo molto di quella vicenda e solo quando fui sicura che mio padre non poteva essere fucilato misi una pietra sopra tutto quello che era accaduto.