Fosse una domenica di campionato staremmo tutti con la radiolina attaccata all’orecchio, come si diceva un tempo. La crisi di governo di questi giorni che, a parte un eccesso di recupero, dovrebbe concludersi in poche ore, non è però (soltanto) una questione di tifo. Tra le numerose incombenze da scongiurare – su tutte l’aumento dell’Iva e l’instabilità finanziaria del Paese – c’è anche la marginalità della Sicilia. Un aspetto deleterio dei 14 mesi di governo gialloverde, in cui l’Isola, e il Sud in generale, sembrano essere spariti dai radar. Uno dei motivi della rottura fra la Lega e il Movimento 5 Stelle è la diversità di vedute su un tema come la Tav, che dalle nostre parti – con strade falcidiate di buchi e ferrovie abbarbicate dalla notte dei tempi – sembra una presa in giro. Certamente un tabù, dato che l’alta velocità si fermerà a Salerno chissà per quanto.

L’ultima domenica di caos sulle nostre autostrade, i tempi biblici per percorrere in treno la tratta da Palermo a Trapani, o da Agrigento a Ragusa, le centinaia di vertenze aperte nel mondo del lavoro (da Almaviva a Blutec), il crollo verticale delle ex province senza appiglio. Ecco. Questo e molto altro, più che elezioni anticipate, suggerirebbero un esame di coscienza da parte dei futuri elettori (se servirà) e della prossima compagine di governo – dato che l’ultima ha dimostrato di fregarsene il giusto – e provvedimenti capaci di ridurre il gap ancestrale fra le aree del Mezzogiorno e quella più sviluppate del Nord. A parlarne così sembra quasi qualunquismo, ma forse è lo specchio della rassegnazione. Dell’abitudine. Del guardare a cosa succede in casa altrui. Da cui spesso arrivano esempi positivi (anche se fatichiamo ad ammetterlo, ma è la nostra indole). Lottare per i propri diritti – come fanno Zaia in Veneto e Fontana in Lombardia – è una scelta sacrosanta. Cullarsi sul reddito di cittadinanza ed esultare per quota 100, no, non è abbastanza. E’ egoismo allo stato puro.

Al Movimento 5 Stelle va dato atto di aver riportato la “questione meridionale” in campagna elettorale, ma da quando Danilo Toninelli – per dirne uno – ha occupato la poltrona di Ministro per le Infrastrutture, la Ragusa-Catania si è bloccata, il commissario per le strade provinciali non s’è mai fatto, i cantieri sulla Caltanissetta-Agrigento e sulla Agrigento-Palermo hanno segnato più frenate che accelerazioni. La nostra resta una terra di mezzo, che il rapporto fra il governicchio Musumeci, a lungo inconcludente su molti fronti, e quello Conte, non ha certamente aiutato. Finché il presidente della Regione farà la corte a Matteo Salvini e darà della “sciagura” o della “calamità naturale” a Toninelli, il percorso rischia di essere segnato per sempre. E pensare che c’avevano offerto sul piatto d’argento un Ministro per il Sud (la Lezzi). Una boutade anche quella.

Facciamo pure il tifo per un esecutivo di legislatura o le elezioni subito, ma i problemi rischiano di rimanere tali. Ci manca un governo autorevole, come detto. La partecipazione di Armao alle numerose conferenze Stato-Regione, mandato in avanscoperta da Musumeci, ci ha lasciato in eredità un clamoroso flop sui finanziamenti alle ex province – ormai smantellate – e numerosi buchi in Finanziaria: per rientrare da un maxi disavanzo con lo Stato, dovremmo fare rinunce e sacrifici per trent’anni. La Sicilia, che contribuisce alla finanza pubblica per un miliardo l’anno, non ha più capacità di spesa. Le sue leggi di Stabilità sono scritte col misurino dagli uffici, e corrette in corsa al ribasso, per far piacere alla Corte dei Conti; non esiste un piano d’investimenti; né una legge di riforma che possa veramente incidere (altro che marina resort). Inoltre – e questo Musumeci lo ha segnalato più volte senza poi adoperarsi di conseguenza – non riusciamo ad applicare lo Statuto, specie per gli articoli relativi all’autonomia finanziaria. Non ce la facciamo e non ce la faremo: siamo a stento riusciti a ottenere una cinquantina di milioni dallo Stato per la continuità territoriale di un paio di aeroporti minori (Trapani e Comiso, che viaggiano a motori spenti), ma non ancora – per dirne un’altra – una fiscalità di vantaggio per le cosiddette “zone economiche speciali”.

Il governicchio di Musumeci non ha credibilità né soldi. Solo una gran voglia di lamentarsi. Il presidente della Regione lo ha sempre fatto in casa, sfidando i suoi deputati a parlare di “maggioranza”, e i suoi dirigenti a parlare di “efficienza”. E continua a farlo pure fuori. Qualche giorno fa, durante il meeting di Rimini, ha incolpato lo Stato per tutte le incompiute di Sicilia. Ha ricercato altrove i “bug” di sistema. E il futuro è a tinte fosche: invocare il voto, in questa fase, è giocare a fare il tifo. O essere consapevoli che neanche da un nuovo, ipotizzato, poco apprezzato, governo a chiazze giallorosse, formato da Pd e Cinque Stelle, si caverà un ragno dal buco. La classe dirigente del Partito Democratico, quando è stata al governo, non ha riservato all’Isola un trattamento da “star”. E il Movimento, nonostante mille promesse e una valanga di voti, non è riuscita a piegare al proprio volere gli “amici” della Lega. All’interno dei dieci punti di Luigi Di Maio, oltre alla voce “autonomia differenziata solidale”, compare un generico “investimenti per il Sud”. Chi ci crede più?

Un esecutivo Pd-Cinque Stelle, invece, finirebbe col ricompattare – in Sicilia – l’opposizione (fin qui piatta) a Musumeci. Coordinata da Cancelleri e Lupo, da Cappello e Cracolici: non hanno mai lesinato critiche al modus operandi del governicchio, ma nonostante i numeri pendessero dalla loro parte – all’Ars la maggioranza è risicatissima, spesso variabile – non sono riusciti a cacciarli in un angolo, a inchiodarli alle proprie responsabilità. E nemmeno a mettersi d’accordo per il taglio dei vitalizi, di cui si discute da oltre un anno senza costrutto. Anzi, per la verità i 5 Stelle avevano proposto al centrodestra (epurato da Forza Italia) un accordo di governo, mettendo sul tavolo due penne e un foglio bianco. Mentre il Pd, spesso, si allinea ai suoi provvedimenti sterili, votandoli in cambio di qualche contentino.

Escluso il gran fermento per le liste se si dovesse andare al voto – cadrà qualche testa soprattutto fra i renziani e i grillini – la Sicilia osserva pacifica l’evoluzione della crisi. Non fa nulla per influenzarla. La subisce, come sempre avviene per le decisioni da Roma. I deputati preferiscono godersi gli ultimi giorni di vacanza (il 2 si torna a scuola). Ma questo stop, che potrebbe prolungarsi in caso di elezioni anticipate, non farà bene alla regione: il 5 settembre si sarebbe dovuto discutere al Cipe della Ragusa-Catania, amen; gli operai di Blutec dal 31 luglio sono senza ammortizzatori sociali; quelli di Almaviva, in attesa di capire se il tavolo al Mise si farà, rischiano di rimanere a casa; 543 milioni vanno spalmati su base decennale – serve il sigillo del Consiglio dei Ministri – o la Finanziaria rischia di ri-congelarsi; le strade e le ferrovie fanno ancora schifo. Tutto andrà avanti come sempre. Anzi, rimarrà fermo. Viva la campagna elettorale nella terra di mezzo.