Questo non è un pezzo di cronaca, non è una “opinione” politica, non è un j’accuse rivolto a qualcuno. E’ un atto di dolore. La testa non c’entra; scrivo con la pancia.

Sono entrato quasi per caso qualche giorno fa nel “vecchio Gargallo”. Non ci mettevo piede, credo, da 45 anni o più. C’era un signore che stava sistemando sedie e tavolo per una presentazione che di lì a poco sarebbe dovuta iniziare nell’ambito delle lodevoli iniziative culturali che si svolgono nel cortile del palazzo.

Il signore mi ha guardato interrogativo. “Era la mia vecchia scuola questa, non ci entro da quando mi sono diplomato”, ho detto. Il signore ha guardato quell’uomo pingue e brizzolato che stava in mezzo al cortile con in naso in aria e l’aria triste, ne ha valutato la assoluta inoffensività (oltre a un certo dolente spaesamento) e ha continuato a sistemare le sedie.

E io sono stato lì 10 minuti. Ho guardato i pannelli di compensato che chiudono le scale, ho sbirciato dai parapetti delle due rampe le lapidi con le scritte che guardavamo ogni giorno (“Considerate la vostra semenza…” e “Alme sol curru nitido diem…”) ormai quasi illeggibili, ho guardato lo sfacelo del primo e del secondo piano, vetri rotti, ante sconnesse da cui si intravedono paesaggi di memorie sventrate.

Ma abbassando lo sguardo, nel cortile e nell’unica aula aperta, s’avvertiva un lindore, una pulizia apprezzabile, quasi un profumo di “nuovo”. E di finto.

Ho avuto la spiacevole sensazione che quel pezzo di vita di generazioni di siracusani, quel luogo di formazione culturale ed esistenziale, sia diventato una quinta di cartapesta, sfondo fascinoso (a patto di non alzare gli occhi) di appuntamenti dotti e interessanti e intriganti.

Avevo pensato di leggerci dentro il mio “Lacrime nella polvere” – che a quel palazzo e ai suoi giovani seguaci d’antan è dedicato – e aspiravo ad un attore bravo che lo recitasse e a Elpidia Giardina che lo sottolineasse con una suite pianistica sulle note di “Mad Word”, nella struggente versione di Gary Jules che ha reso intimo e magico l’inno dei Tears for Fears.

Forse ci riprovo questa estate, se ce ne sarà il tempo. Peraltro il Gargallo-cinecittà, diventato cortile di cartapesta sovrastato da macerie autentiche, sarebbe il palcoscenico ideale per quel racconto breve sulla fine di un simbolo. Sono stato a guardarmi intorno nel cortile esterno, chiudendo gli occhi e la mente e spingendomi indietro a quando quello spazio ora vuoto era gremito e rumoroso di motorini. Sono stato nell’androne a sbirciare la frase delle verrine ciceroniane, quella della “Syracusas” massima fra le città greche. Sono stato lì cercando la memoria occlusa dal compensato che chiude le rampe.

Ho cercato… ma ho trovato “solo” uno spazio culturale bello e vivo.

Uscito sul lungomare ho guardato quei balconi sfondati del primo piano dai quali si vedeva il mare e che oggi rivelano a chi è malato di nostalgia il soffitto divelto del corridoio della sezione A, la mia.

Io non lo so se mai il Liceo Gargallo tornerà in tutto o in parte in quel palazzo, francamente non credo accadrà. Ringrazio chi sta tenendo vivo quel cortile, un tempo vitale e grondante di voci ragazzine, oggi quinta ritinteggiata per interessanti presentazioni e confronti.

Ma non perdonerò mai lo scempio del Gargallo, l’oltraggio alla memoria più nobile della mia città. Hasta el Gargallo siempre.

(tratto dal blog Strummerleeaks di Toi Bianca)