“Comunque è come in Formula 1… il primo avversario è il compagno di squadra”. Sergio Tancredi, espulso dai probiviri per le mancate rendicontazioni, l’aveva scritto in un post lo scorso 11 maggio. Ieri, all’Ars, il Movimento 5 Stelle si è smembrato. Manca solo l’ufficialità ma, al termine di una giornata campale, sono stati fatti fuori gli altri “dissidenti”: Angela Foti, vicepresidente dell’Assemblea, Matteo Mangiacavallo, Elena Pagana e Valentina Palmeri. L’accusa è aver votato in difformità rispetto alle decisioni del gruppo (si sono astenuti sulla Legge di Stabilità), ma nelle piaghe della crisi c’è molto altro. I quindi deputati rimasti hanno inviato una nota ai giornali: da un lato per rassicurare il proprio elettorato che “le nostre battaglie continuano, con immutata passione e grandissimo impegno”; dall’altro, per raccontare l’ultimo (?) pezzo di verità sui motivi che avevano portato i “ribelli” a prendere le distanze dal modus operandi dei 5 Stelle a palazzo dei Normanni.

Comprendere chi abbia torto e chi ragione è impossibile. Ma anche ricostruire le vicende che hanno generato questa crepa è parecchio difficoltoso. Ripartiamo, quindi, dal post di Tancredi. Il deputato mazarese, alla seconda legislatura, è indietro con le restituzioni da gennaio 2019: ha spiegato, anche pubblicamente, che i suoi conti sono stati pignorati in seguito a una condanna per diffamazione che gli ha imposto un risarcimento nei confronti dell’ex collega Antonio Venturino (per un banale retweet). Gli avevano creduto: tanto che il viceministro Giancarlo Cancelleri, come confermato un paio di giorni fa a Buttanissima, ha provato a intercedere col collegio di garanzia del M5s, di cui è membro, chiedendo di “annullare” l’espulsione di Tancredi, in attesa di concordare col deputato un piano di rientro economico.

Ma non se n’è fatto nulla, perché Tancredi, di rientrare nel Movimento non ha voluto più saperne. Nel lungo racconto affidato a Facebook il 14 maggio, e riferito ai giorni della Finanziaria, Tancredi spiegava di aver subito delle “imboscate interne per suscitare il mio voto contrario da parte di qualche collega del Movimento che, evidentemente mal consigliato, attaccava norme che di fatto, se non votate, avrebbero danneggiato la provincia di Trapani”. Una pratica di “una bassezza senza limiti e indegna di un portavoce del Movimento”, secondo il deputato. Un effetto – probabilmente – del comportamento dello stesso Tancredi, che da mesi aveva sposato la missione del “voto responsabile”, e il cui feeling con Musumeci non è mai stato rinnegato.

Il parlamentare di Mazara del Vallo è stato il primo – realmente – a interrogarsi sulla natura dell’opposizione dei Cinque Stelle, sulla capacità d’incidere di un gruppo di venti deputati rispetto alle politiche del governo e alle promesse della campagna elettorale. Alle quali, una volta svestiti i panni della propaganda e dei comizi, bisognava dare un seguito. E’ stato il primo a spostarsi verso posizioni concilianti e filo-governative, stimolando un dibattito interno che il 13 febbraio scorso, dopo un periodo di grande agitazione a cavallo delle Feste, sembrava dare i suoi frutti: “Sta accadendo quello che avevo chiesto”, cioè “far assumere al Movimento le proprie responsabilità, fra cui quella di discutere con il governo – aveva dichiarato Tancredi -. La spinta iniziale, venuta da me, ha indotto molti colleghi a una riflessione. Lo shock della paventata scissione ha ottenuto l’effetto sperato: farli svegliare”. Ma aveva anche aggiunto: “Se questa cosa, come io spero, avrà un’evoluzione, lo scenario può cambiare definitivamente. Altrimenti saremo punto e a capo”. Si è avverata la profezia peggiore.

Una settimana fa Tancredi ha comunicato di aderire al gruppo Misto. E quattro colleghi del Movimento 5 Stelle hanno scelto di dargli manforte con una nota, spiegando che un chiarimento interno, come annunciato giorni prima dal capogruppo Pasqua, non c’è mai stato. Ma soprattutto che “mentre l’amico Sergio veniva sbattuto fuori”, noi “siamo stati ignorati”. “Quando vengono meno i principi del dialogo, della solidarietà tra colleghi e del rispetto, valori che ci hanno guidato nel corso di otto lunghi anni, viene meno non solo lo spirito di un gruppo, ma anche il desiderio di farne parte, la voglia e i progetti per i quali si sta insieme”. E’ questa la parte più dura della protesta, che, come detto è stata firmata da Foti, Mangiacavallo, Palmeri e Pagana.

La prima, Angela Foti, è vicepresidente dell’Ars. Ottenne il secondo scranno di Sala d’Ercole all’indomani dell’addio di Giancarlo Cancelleri, che migrò al Ministero dei Trasporti lasciando il partito in macerie. Ma la sua elezione rimarrà uno dei grandi gialli di questa legislatura. Nella votazione del 28 dicembre scorso, infatti, il gruppo decise di sostenere Francesco Cappello, inviso al centrodestra per la sua accanita rivalità con Musumeci e Miccichè. Ma nel segreto dell’urna qualcosa si inceppò e la Foti ottenne più voti del collega (31 a 28). E non tutti con la firma in calce dei partiti di maggioranza. A Cappello, conti alla mano, mancarono almeno un paio di preferenze, se non tre. La Foti, nonostante gli inviti informali, non ha mai ritenuto di doversi dimettere, amplificando così le suggestioni. Anche se in questi mesi ha respinto più volte l’accostamento al Carroccio: “Piuttosto mi faccio bionda…” fu la sua risposta. Un concetto rimarcato due giorni fa, nel corso di un’intervista a Catania Today: “La Lega dovrebbe sparire dal panorama politico italiano, non solo siciliano”.

La Foti è una delle tre componenti grilline in commissione Attività Produttive. La seconda è José Marano, “lealista”. La terza Valentina Palmeri, “ribelle”. La deputata di Alcamo, classe ‘76, è alla seconda legislatura. E deve la sua notorietà (anche) a una strenua operazione di “resistenza” rispetto all’impianto di biometano che la Solgesta Srl, società riconducibile a Paolo Arata e Vito Nicastri, avrebbe voluto realizzare a Calatafimi-Segesta. La Palmeri sentì puzza di bruciato e chiese un accesso agli atti, mettendo in allerta la magistratura. Poi sappiamo com’è finita: Arata e Nicastri, entrambi arrestati, sono i protagonisti indiscussi dello scandalo sull’eolico che scalfì persino il governo nazionale, dato che il sottosegretario Armando Siri (vicinissimo a Salvini) fu costretto alle dimissioni per una presunta mazzetta.

Gli altri compagni d’avventura sono Matteo Mangiacavallo ed Elena Pagana. Mangiacavallo, l’unico macho del gruppo, è stato eletto ad Agrigento col oltre 14 mila voti. Nativo di Sciacca, classe ’72, è alla seconda esperienza a palazzo Reale. Nel Movimento 5 Stelle, con le regole attuali, non avrebbe più alcuna velleità di candidatura. L’unica ad essere fuori da questo ragionamento è Elena Pagana, la deputata più giovane (fra i maschietti svetta Luigi Genovese), alla sua prima legislatura. Laureata in Giurisprudenza, ha preso più di 8 mila voti ed è la compagna dell’assessore alla Salute Ruggero Razza. Nel 2018, pochi mesi dopo la sua elezione, il meetup di Troina, la sua città natale, ha preso “le distanze dalla Portavoce eletta disconoscendola come riferimento politico”. Possiede ottime abilità oratorie e c’è la sua firma sulla creazione della consulta giovanile regionale, battezzata all’Ars da Micciché. Non disdegna il nemico ed è probabile che si assuma l’onere di “trattare”, qualora fosse necessario, per un riposizionamento all’interno del parlamento.

Perché non c’è nulla di male ad andar via se non si sta più bene. E se è emersa, negli anni, “una palese diversità di intenti tra quelli del “no” e quelli delle “idee buone” che non sono né di destra né di sinistra”. Ecco il gap. Da un lato, i “responsabili”, pensano di dover fare il meglio possibile: per la Sicilia, per l’esecutivo e magari un po’ per sé. Non è peccato sostenere una compagine di governo che annaspa da sempre. Dall’altro, gli “oltranzisti”, ribadiscono che con Musumeci e la sua squadra non hanno nulla da spartire. “Nella vita, si può cambiare idea e, chi vuole, anche partito – si legge nella nota di chi resta -. Ma si deve avere l’onestà intellettuale di riconoscerlo, senza appigliarsi a scuse o, addirittura, cercare di rigirare la frittata, accusando noi di “goffi tentativi di imitazione dei partiti che prima ci proponevamo di smantellare”. Al limite è forse vero il contrario”. Amici come prima? Ma quando mai…