Pensavate che bastasse una sentenza della Cassazione per stroncare un teorema giudiziario? Venite a Palermo. Scoprirete che i Cavalieri della Fuffa, quelli che per dodici anni hanno tenuto in piedi un processo senza prove e senza reato, non hanno ancora calato il sipario sulla grande sceneggiata della Trattativa. Scoprirete che quei magistrati, ovviamente coraggiosi, sono ancora ai loro posti di combattimento in attesa, come nel deserto dei Tartari, che sulla linea dell’orizzonte si affaccino nuovi complotti, nuovi nemici, nuovi misteri e nuovi fantasmi. Scoprirete, insomma, che i protagonisti del più fantasioso romanzo costruito dentro il Palazzo di Giustizia resistono e non si arrendono. Né mostrano il minimo rimorso. Hanno inchiodato, per tanto tempo, all’albero della gogna tre alti ufficiali del Ros e due uomini politici, accusati di avere stretto un patto sporco e inconfessabile con i sanguinari boss di Cosa Nostra. Li hanno sputtanati sui giornali, in televisione, in cento libri, in mille dibattiti e conferenze. E ora che la Cassazione ha raso al suolo i loro castelli di carta e restituito l’onore a cinque persone innocenti, non c’è stato uno solo dei tanti interpreti della commedia che abbia avuto il coraggio di chiedere scusa, di battersi il petto, di mostrare un segno di rammarico o di pentimento.

Si dirà: ma non è la prima volta che la Suprema Corte ribalta la sentenza di un Tribunale o di una Corte d’Appello; non è la prima volta che un giudice assolve gli imputati che un altro giudice ha ritenuto colpevoli: è la normale dialettica prevista dalla Costituzione e dallo stato di diritto. Tutto vero, tutto legittimo, tutto sacrosanto: ci mancherebbe altro. Ma quello sulla fantomatica Trattativa tra lo Stato e la mafia non è stato un normale processo. E’ stato un gigantesco rito salvifico, con vittime sacrificali di prima scelta, celebrato per un quarto nell’aula bunker dell’Ucciardone, davanti a una Corte d’Assise composta da due togati e sei giudici popolari; e per tre quarti nelle piazze televisive di Michele Santoro e Marco Travaglio, sulle pagine abbagliate e compiacenti dei grandi giornali, nelle tante scuole che facevano a gara per aggiudicarsi la conferenza di uno dei quattro pubblici ministeri impegnati nel processo e nelle aule consiliari dei comuni che non vedevano l’ora di conferire la cittadinanza onoraria agli eroici rappresentanti dell’accusa. Nino Di Matteo – il più coraggioso tra i magistrati coraggiosi e frontman dei pubblici ministeri d’aula – di cittadinanze onorarie ne ha totalizzate un centinaio; e mentre girava, come un chierico vagante, da una città all’altra per raccogliere atti di fede sulle proprie tesi, scriveva libri e rilasciava interviste, andava in tv come ospite fisso di Massimo Giletti e di Andrea Purgatori, preparava il suo passaggio alla Procura nazionale antimafia, si candidava al Consiglio superiore della magistratura, accettava i complimenti di Beppe Grillo, ch’era un semidio del populismo, e trattava pure col ministro grillino della Giustizia, Alfonso Bonafede, che gli prometteva – ma poi si rimangiava – la direzione del Dap, il potente e ricco dipartimento dell’amministrazione penitenziaria.

C’era, nascosto tra le pieghe di quel processo, il demone della politica. Si processava il senatore Marcello Dell’Utri, ma si sapeva che il vero obiettivo era Silvio Berlusconi: infatti si farneticava sulla sua discesa in campo, sulla nascita di Forza Italia, sul giallo di uno stalliere mafioso arruolato ad Arcore, sui legami tra la Fininvest del Cavaliere e i nuovi padrini di Brancaccio come i fratelli Filippo e Giuseppe Graviano. Si accusava di falsa testimonianza Nicola Mancino, ex ministro dell’Interno, ma poi si intercettava il Quirinale e si pretendeva di diffondere le conversazioni private del Capo dello Stato, Giorgio Napolitano. Si trascinava alla sbarra l’ex ministro Calogero Mannino, democristiano, e poi si sosteneva che la Prima Repubblica altro non era che il frutto di collusioni e complicità con il potere mafioso; il santuario gotico di un tavolo ovale attorno a quale sedevano contemporaneamente politici corrotti e boss in cerca di affari, funzionari felloni e servizi segreti deviati.

Quel processo era talmente intriso di connotazioni e ambizioni politiche che Antonio Ingroia – il procuratore aggiunto, autore della colossale inchiesta giudiziaria –  si giocò tutto, a testa o croce, nelle elezioni del giugno 2013. Stordito dal trionfo che gli veniva tributato per avere trasformato in “icona dell’antimafia” il pataccaro Massimo Ciancimino, figlio di don Vito; e ubriaco degli applausi ricevuti dai santoni più gorgoglianti del circo mediatico, scese in campo come candidato alla Presidenza del Consiglio. Rotolò, come si ricorderà, sullo zero virgola e dovette di conseguenza lasciare la procura di Palermo. Gli andò proprio male: aveva sognato una vita di tenore in giro per i più famosi teatri del mondo e si ritrovò all’improvviso a cantare nei matrimoni.

Andò molto meglio invece a Piergiorgio Morosini che, da Gip, prese in mano la voluminosa inchiesta di Ingroia e in pochi giorni consacrò il rinvio a giudizio di undici imputati: Mannino e Dell’Utri; i generali Mario Mori e Antonio Subranni, il colonnello Giuseppe Di Donno, tutti e tre del Ros; più cinque padrini del gotha mafioso dei corleonesi: Totò Riina, Bernardo Provenzano, Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca, Antonino Cinà. Dopo un passaggio al Csm, Morosini è stato nominato presidente del Tribunale di Palermo. Si è insediato solennemente pochi mesi fa.

E’ andata bene pure ad Alfredo Montalto, il giudice che per cinque anni ha presieduto la Corte d’Assise e che il 20 aprile del 2018 è venuto fuori con una sentenza che di fatto glorificava non solo l’immaginifico articolo 338 del codice penale – “Minaccia a un corpo politico dello Stato” – ma condannava anche a pene severissime, tra gli undici e gli otto anni di carcere, tutti gli imputati: i politici, i mafiosi, e gli investigatori del Ros, responsabili “in concorso tra loro” di avere trescato con ogni mezzo, comprese le stragi, per costringere i vertici dello Stato ad allentare il carcere duro previsto dal 41bis per i picciotti e i mammasantissima di Cosa Nostra. Montalto oggi è il capo dei giudici per le indagini preliminari, i cosiddetti Gip. Si gode, va da sé, il suo alto incarico. Ma sulla sentenza che porta la sua firma la Cassazione è stata tranciante, lucida, severa, affilata.

La Suprema Corte ha scritto che i giudici di merito hanno ceduto al fascino storiografico e hanno finito per trasformare in certezza un insieme di indizi vaghi e privi di riscontri: non si sono accorti che nell’inchiesta di Ingroia non c’erano prove e che dietro un’ordinaria trattativa – come quella avviata da Mori e De Donno con Vito Ciancimino per catturare i corleonesi della mafia stragista – non si poteva configurare in alcun modo un reato. Non solo. Non sapendo poi come arrampicarsi sugli specchi i giudici di primo grado hanno scritto 5237 pagine di motivazioni: una montagna di carta inutile, confusa e soprattutto “tale – annota il relatore della sesta sezione penale della Cassazione – da offuscare le ragioni della decisione e rendere le linee argomentative di difficile identificazione e interpretazione”. Una mazzata. Che dovrebbe sollevare almeno due interrogativi. Come è potuto succedere un disastro giudiziario di così vaste proporzioni? Quale Parlamento, quale governo o quale ministro della Giustizia avrà mai la forza di sigillare gli abissi chiari in cui rischia di precipitare la giustizia quando entrano in gioco le ambizioni politiche di un Ingroia e le patacche fumeggianti di un Massimo Ciancimino?

La Confraternita della Trattativa, chiamiamola così, ha accusato il colpo ma non se l’è presa più di tanto. Non ha deposto le armi. Anzi. Il suo organo di stampa – un sito a disposizione di tutti i fanatici – definisce “carnevalesca” la sentenza della Cassazione e lo fa con un riferimento volgare e offensivo a Corrado Carnevale, il presidente della prima sezione penale della Suprema Corte messo sotto processo – per intelligenza con la mafia – da Gian Carlo Caselli subito dopo il suo insediamento alla Procura di Palermo e puntualmente assolto nel 2002, dopo nove lunghi anni di gogna. “Noi non accettiamo il colpo di spugna che viene dato alla storia”, scrive il portavoce della Confraternita. “Noi non dimentichiamo”. Gli fa eco Ingroia, intervistato dal Fatto: “Sento più odore di politica che di diritto: la Cassazione si è spinta oltre le colonne d’Ercole”.

Della reverendissima filiera, impegnata da oltre trent’anni a scavare tra le impalpabili trame dello Stato-mafia, fa parte anche Roberto Scarpinato che da procuratore generale di Palermo ha retto l’accusa nel processo di secondo grado agli imputati della Trattativa e che, appena raggiunta l’età della pensione, si è lanciato con molto zelo in politica. Oggi è senatore della Repubblica: lo ha chiamato l’ex premier Giuseppe Conte, lo ha eletto il Movimento Cinque Stelle.

Rispetto agli altri padri inquisitori della Confraternita il senatore Scarpinato riveste un ruolo cardinalizio. Ma le stanze damascate di Palazzo Madama non gli conferiscono i poteri che gli assegnava l’ufficio della procura. Al Senato non potrà più mettere insieme i “Sistemi criminali”, prima archiviati e poi riciclati da Ingroia nella infausta inchiesta. E non avrà nemmeno il modulo con il quale mandare in galera i presunti colpevoli. Palermo, da un punto di vista giudiziario, non gli appartiene più. La procura è retta da Maurizio De Lucia, un magistrato di estremo equilibrio; e lì dove un tempo c’era Ingroia oggi c’è Paolo Guido, il procuratore aggiunto che nel 2013 rifiutò clamorosamente di controfirmare l’inchiesta sulla Trattativa e che quest’anno, al fianco di De Lucia, ha coordinato le indagini dei Ros per la cattura di Matteo Messina Denaro, il boss che dopo la stagione delle stragi si era dato alla macchia e che per trent’anni era rimasto latitante. Per carità, da bravo senatore Scarpinato potrà sempre pronunciare un vibrante intervento in aula o presentare un ordine del giorno in una delle tante commissioni d’inchiesta che affollano palazzo San Macuto. Ma poi?

Poi non potrà che prendere atto, malgré tout, che lo Stato ha vinto mentre la mafia ha perso: i boss sono quasi tutti murati vivi nelle carceri di sicurezza e i carabinieri del Ros restano un baluardo contro la criminalità organizzata. E questo, nonostante l’impegno rumoroso e detonante dei cosiddetti magistrati coraggiosi che invece raffigurano una Cosa Nostra sempre più forte, più ricca, più aggressiva e più tentacolare di sempre. Ragion per cui non si arrendono, non si pentono e non provano mai un rimorso. Nemmeno quando stritolano, senza una prova, le vite degli altri. La visione di una mafia eterna e invincibile, del resto, gli consente di stare comodamente immersi, scortatissimi, in una chiacchiera senza fine sui mandanti esterni delle stragi, sulle regie occulte, sulle trame oscure e sui servizi segreti deviati. Fuffa e nulla più. Come la famigerata Trattativa appena rasa al suolo dalla Cassazione.