Hanno poco in comune: i tormenti, il declino elettorale, l’incertezza della leadership. Ma tanto basta per riflettere su tre grandi partiti – Pd, Forza Italia e Lega – che si affacciano alle prossime elezioni comunali, da Catania a Trapani, con l’ansia da prestazione. Che poi è anche e soprattutto ansia di fallire, di proseguire la discesa negli inferi e non lasciare traccia, men che meno nostalgia, all’interno del reciproco elettorato.

A Catania gli schemi del centrosinistra si sono infranti sul ritiro di Emiliano Abramo, totem della Comunità di Sant’Egidio, che in poche ore ha accettato e poi rinunciato al ruolo di tedoforo dei progressisti. Il Pd, già privato del suo uomo di punta – Enzo Bianco s’è candidato sotto le insegne del civismo – ha mandato giù l’ennesimo boccone amaro. La cura ricostituente si chiama Elly Schlein, che ha portato con sé in direzione dieci valenti professionisti della politica locale (compreso qualche volto nuovo). Ma per applicare la rivoluzione ce ne passa. Per questo turno di Amministrative, laddove gli schemi non sono ancora consolidati, il Partito Democratico dovrà accontentarsi di una mesta alleanza col M5s, declinando a sinistra le proprie, momentanee aspirazioni.

Con la Schlein era logico attendersi un ulteriore appiattimento sui Cinque Stelle, dopo la prima infatuazione di Enrico Letta (poi svanita di fronte al logoramento del governo Draghi), ma anche il rapporto coi grillini, nell’Isola, va riformattato. Si era incrinato la scorsa estate di fronte alla decisione di rendere Caterina Chinnici, aspirante (ma neanche tanto) alla poltrona di Palazzo d’Orleans, una candidata di bandiera. Il referente regionale del M5s, Nuccio Di Paola, aveva pregato il segretario dem, Anthony Barbagallo, di non metterci il “cappello”, cosa che è puntualmente avvenuta. La questione morale, i dissidi romani, le impuntature di Conte, hanno fatto il resto. E non sono bastate le primarie, celebrate in un clima da guerra fredda, a convincere i protagonisti dell’inutilità dell’esercizio. Era chiaro che si stesse andando a sbattere. Oggi, trascorsi alcuni mesi, bisogna ricostruire un rapporto. E non può trattarsi di una mera somma algebrica: a Ragusa, ad esempio, non ha funzionato (il candidato sindaco del Pd è diverso da quello dei 5 Stelle).

Il Pd ha bisogno di riscoprire la propria identità, di abbattere lo steccato che separa tuttora vecchia e nuova guardia, di tornare al centro della scena politica, come ha già provato a fare in occasione della manifestazione dei precari Covid qualche giorno fa in piazza a Palermo. E di riavvicinarsi a un elettorato smarrito, che di fronte al successo della giovane Elly ha ripreso a tesserarsi. Come? Magari interessandosi un pelino in più delle questioni che affliggono il governo a guida Schifani, a partire dagli scandali; ed evitando di accettare qualsiasi prebenda in sede di Finanziaria: la macchina va fatta funzionare con un’opposizione seria, e non solo di facciata. L’inciucismo è il peggior alleato della sinistra.

Non che nel centrodestra se la passino meglio. Ci sono almeno un paio di partiti che vivono un tormento interiore con pochi precedenti. Il primo, per distacco, è Forza Italia. Dopo quasi trent’anni a guida Miccichè, gli azzurri si ritrovano catapultati nel magico mondo di Schifani. Dove ogni annuncio è foriero di disfatta. Questo non dovrebbe riguardare più di tanto Marcello Caruso, fino a pochi mesi fa il coordinatore provinciale di Italia Viva a Palermo, cui spetta l’ingrato compito di comporre le liste per le Comunali – col placet del presidente della Regione, va da sé – nel tentativo di non fare sfigurare una formazione che, di riffa o di raffa, anche negli ultimi anni in cui Berlusconi è stato debilitato (soprattutto dall’età galoppante), in Sicilia ha saputo incassare. Anche il risultato raccolto alle ultime Regionali è stato lusinghiero. E Caruso avrà un problema in meno rispetto al suo predecessore: non dovrà ricostruire un bel nulla. A parole sono tutti dalla parte di Schifani, compresi quei pochi che sono scesi in tempo utile dal carro di Miccichè e oggi, per esprimere apprezzamenti nei confronti del vecchio leader, preferiscono trincerarsi dietro interviste anonime: sia mai che scatti la gogna.

Forza Italia non esprimerà quasi certamente il candidato sindaco di Catania, e più in generale dovrà accettare il ruolo che Schifani s’è cucito addosso: quello di garante ed equilibratore fra le varie anime della coalizione che non vedono l’ora di azzannarsi. Caruso, almeno in questa prima fase, non dovrà gestire l’ingordigia degli ex miccicheiani: tutti hanno un ruolo di governo o sottogoverno, e anche deputati e senatori (grati a Gianfranco per avergli evitato l’affanno di una preferenza) sembrano allineati al capo che avanza. Ma quando il vento comincerà a tirare contro, l’ex presidente della Sas dovrà assumersi la responsabilità di scegliere o decidere per il bene del partito, lasciando a Schifani l’onere del governo (purché la Sicilia non passi in secondo piano rispetto alle lecite aspirazioni dei berluscones e alle percentuali nelle urne).

L’altro contingente in balia delle onde è senz’altro la Lega di Salvini. Battezzata col nome di ‘Prima l’Italia’ nel corso dell’ultima campagna elettorale – fu un’intuizione di Minardo – oggi si ritrova con un segretario nuovo (la licatese Annalisa Tardino) e con mezza classe dirigente rinnovata. Quelli della ‘prima ora’ sono fuori da tutto: Ars, governo, partito. I nuovi, spinti dal successo di Luca Sammartino e Mimmo Turano, hanno fatto piazza pulita e primeggiano. Il Capitano non ha più il fascino di un tempo, le pretese federative si sono arenate (vedi i rapporti con Raffaele Lombardo e con numerose realtà civiche) e il futuro è tutto da inventare. Più che un partito sembra un autobus: in questi mesi, specie alla vigilia delle ultime Politiche, ha messo dentro di tutto, ma oggi fatica a far attecchire un sentimento. Per altro, al netto della battaglia del vicepremier sul Ponte, è difficile cogliere nelle proposte della Lega uno spirito meridionalista o, peggio, sicilianista. L’esempio plastico è la proposta Calderoli sull’autonomia differenziata, che Schifani ha fatto propria in cambio di una promessa a riparlare dell’attuazione dell’articolo 119 della Costituzione, a partire dalle ultime modifiche sul riconoscimento dell’insularità.

Ma tutto rischia di fermarsi a mere dichiarazioni di principio. Improduttive. Che evadono le questioni vere (anche la battaglia sui termovalorizzatori sembra una medaglia da appuntarsi al petto e poco più). Per ribaltare la prospettiva di un Carroccio sempre più ai margini, che in Sicilia si stava radicando a partire da spinte centriste e neodemocristiane, servirebbe la zampata: il colpo in canna è la candidatura della deputata Valeria Sudano, compagna di Luca Sammartino, a sindaco di Catania. Sarebbe un modo per scongiurare il dominio di Fratelli d’Italia (che peraltro nel capoluogo etneo, con Pogliese, escluse dalla giunta gli esponenti leghisti); per dimostrare di avere un’idea di amministrazione da coltivare; per mettersi alla prova in una delle città più difficili; per dimostrare di non essere lettera morta. Il bilancino, come sempre, prevarrà sulla logica. La cosa migliore da fare, quindi, è scegliersi per tempo gli alleati più fidati.