Tempi grevi alla Regione. Il Coronavirus ha rimesso in discussione tutto. Persino la nomina dei dirigenti generali, momento chiave della legislatura. Gli incarichi, scaduti dal 16 febbraio, sono stati prorogati un paio di volte fino al 15 marzo, ma poi, nel pieno dell’emergenza, si è preferito glissare. La nuova scadenza è fissata per venerdì prossimo, 17 aprile. Le scelte sono state già fatte, ma è probabile che l’annuncio venga posticipato ulteriormente. C’è un dato incontrovertibile, però, che almeno dovrebbe indurre a riflettere: dall’atto di interpello interno promosso da palazzo d’Orleans, verranno fuori ventotto dirigenti generali. Uno, in realtà, è già andato: il ragusano Giovanni Vindigni, in piena emergenza Coronavirus, si è preso il dipartimento al Lavoro (centro di comando di molte pratiche relativa al Covid). Ma in realtà, nella pianta organica della Regione, sono in otto a possedere i requisiti per occupare le posizioni apicali della burocrazia. Otto su ventotto.

E gli altri? Si farà come si è sempre fatto. A capo dei dipartimenti verranno nominati profili che non possiedono i requisiti di legge. E’ così che accade da una ventina d’anni. Ma andiamo con ordine. L’attuale quadro normativo di riferimento per il conferimento degli incarichi di dirigenti generali della Regione è costituito dalle norme contenute nell’articolo 9, commi 4 e 8, della legge regionale n. 10/2000 nonché nell’articolo 11, commi 4 e 5, della legge regionale n. 20/2003 che stabiliscono che possono essere nominati ai vertici della burocrazia regionale: i dirigenti di prima fascia; i dirigenti di seconda fascia, purché abbiano maturato almeno sette anni di anzianità nella qualifica di dirigente e siano in possesso di adeguata formazione professionale e culturale (…), nel limite di un terzo delle dotazione organica superabile in caso di necessità; e i soggetti esterni che abbiano i requisiti soggettivi di cui all’art. 19 comma 6 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, nel limite del 30% della dotazione organica.

Fatte queste dovute premesse, e considerato che la Regione non assume dirigenti da tempo (“Il più giovane ha 51 anni” ha detto qualche settimana fa Musumeci, lamentandosene), il dato su cui soffermarsi è un altro: la Regione siciliana non ha alcun dirigente di prima fascia, e ne ha appena otto di seconda. Come sopperisce? Con i 1.200 di “terza fascia”, una categoria a sé, che non esiste in altre parti d’Italia, fuori da qualsiasi quadro normativo. E istituita, notte tempo, con la legge n.10/2000, la stessa che regola l’accesso alle posizioni apicali della burocrazia. In merito ai dirigenti di “terza fascia”, come ha ribadito un recente parere del Consiglio di Giustizia Amministrativa (il Cga), “si tratta in buona sostanza di funzionari”. Che non andrebbero messi a capo dei dipartimenti, perché privi di competenze specifiche. C’è di più: la stessa legge, all’articolo 5, stabilisce che “agli eventuali posti residui” della seconda fascia dirigenziale accedono “i dirigenti della terza fascia a seguito di concorso per titoli ed esami”. Ma negli anni non è stato bandito alcun concorso: tanto che sia la prima che la seconda fascia si sono erose, e nessuno ha sopperito ai pensionamenti.

La terza fascia, invece, è ancora lì. Coi suoi prodi rappresentanti (più che dimezzati rispetto ai 2.700 degli inizi). In estate, prima che la scure della Corte dei Conti si abbattesse sulla Regione, il governo fece un tentativo strenuo: garantire – attraverso un “collegato” alla Finanziaria – il transito di circa cinquecento dirigenti dalla terza alla seconda fascia. Ancora una volta senza concorso. Ma la norma, che faceva parte del cosiddetto “ddl assunzioni”, fu stralciato per la ferma opposizione del Movimento 5 Stelle e rinviato sine die. Se ne sarebbe dovuto parlare in autunno, magari con una legge ad hoc promessa dall’assessore alla Funzione pubblica, Bernadette Grasso. Ma la Regione è stata attanagliata da tutta una serie di questioni finanziarie, e l’argomento ha perso appeal.

Torna d’attualità proprio in questi giorni, dato che le nomine non sono più procrastinabili. I dirigenti della terza fascia saranno ancora lì, sulle poltrone che contano, a guadagnare fior di quattrini; sebbene in questi vent’anni la giurisprudenza abbia fatto il proprio corso, consegnando alla storia un verdetto unanime: non-si-può-fare. Il primo esempio è il più fulgido della collezione: il Commissario di Stato, nel 2003, impugna l’articolo 11 della legge 20/2003, con cui l’amministrazione regionale, dopo avere stabilito che l’incarico di dirigente generale può essere affidato a dirigenti di prima fascia o ad esterni (comma 4), prevedeva al comma 5, nella sua versione originaria, che “l’incarico di dirigente generale può essere, altresì, conferito a dirigenti dell’amministrazione regionale, appartenenti alle altre due fasce”. Stop, fermi tutti. Secondo il Commissario l’inciso “appartenenti alle altre due fasce” è in aperto contrasto con l’articolo 97 della Costituzione sotto il profilo del buon andamento della pubblica amministrazione, per il fatto di consentire il conferimento delle funzioni di dirigente generale anche ai dirigenti della “terza fascia” senza verifica della loro capacità professionali ed attitudinali in relazione al nuovo incarico. E lo impugna.

Ne prende atto anche la Corte Costituzionale che, con l’ordinanza n. 131 del 28 aprile 2004, dichiarava cessata la materia del contendere, affermando che “dopo la proposizione del ricorso, la legge approvata dall’Assemblea Regionale Siciliana il 13 novembre 2003 è stata promulgata (L.R. 3 dicembre 2003, n.20) con omissioni delle parti impugnate, sicché risulta preclusa la possibilità che sia conferita efficacia alle disposizioni censurate”. Insomma, i dirigenti di “terza fascia” vengono preclusi dall’assumere posizioni apicali all’interno della macchina burocratica regionale. Una posizione condivisa dalla Corte d’Appello di Palermo, che ha recentemente e nuovamente affermato che “l’art. 11, comma 5”, della legge regionale n. 20/2003, “così come promulgato e vigente, privo dell’inciso sopra indicato (appartenenti alle altre due fasce) non consenta più il conferimento dell’incarico di direttore generale al dirigente di terza fascia”.

Ma la politica, letteralmente, se ne infischia. E per quelli della “terza fascia” gli incarichi dirigenziali fioccano. Soltanto per una ristretta cerchia. E nessuno ha avuto da eccepire finché l’ex capo di gabinetto di Totò Cuffaro, Salvatore Taormina, esautorato dal governo Lombardo, decise di presentare, assieme a un’altra dirigente di “terza”, Alessandra Russo, ricorso contro la nomina a segretario generale della Regione di Patrizia Monterosso, un’esterna, ad opera dello stesso governatore di Grammichele, poi prorogata da Rosario Crocetta. Con la sentenza 1244/2012, il Tar gli diede torto, specificando che i dirigenti di “terza fascia”, come Taormina e la Russo, non potevano aspirare a quella posizione. Taormina, per inciso, si è dimesso il 23 marzo dall’incarico di dirigente generale del Dipartimento all’Istruzione e alla Formazione professionale. Ha percepito uno stipendio lordo annuo di 113 mila euro, in aggiunta a 41 mila di retribuzione variabile. All’interno del decreto di nomina, firmato dal presidente Musumeci, era scritto a caratteri cubitali che si trattasse di un “dirigente di terza fascia dell’Amministrazione regionale”. Tutto alla luce del sole.

Ma c’è un’altra sentenza, emessa a giugno 2019 dalla giudice del Lavoro di Palermo, Elvira Majolino, che riporta all’inizio del ragionamento, e cioè che non-si-può-fare. La giudice, infatti, ha accolto la causa intentata da Alberto Pulizzi, dirigente di seconda fascia, contro l’assessorato alle Infrastrutture e Mobilità della Regione siciliana, nei confronti di Fulvio Bellomo e Vincenzo Palizzolo, entrambi dirigenti di “terza fascia”. Il giudice, in parziale accoglimento del ricorso, “condanna le amministrazioni convenute (…) ciascuna per le rispettive competenze, a ripetere la procedura di affidamento dell’incarico di dirigente generale del Dipartimento regionale tecnico dell’Assessorato regionale delle Infrastrutture e della Mobilità”. Bellomo, molto vicino a Musumeci, occupa ancora oggi una posizione apicale: quella di dirigente generale del dipartimento alle Infrastrutture. I tribunali intervengono, ma la politica tira dritta.