Forse anche Giuseppe Conte, ex presidente del Consiglio e attuale capo politico del Movimento 5 Stelle, il primo a sdoganare il Reddito di cittadinanza coi gialloverdi (assieme a Salvini), non ha più i prosciutti sugli occhi: “Siamo responsabili. Sappiamo che il Reddito di cittadinanza va migliorato – ha detto ieri in un’intervista a Mattino Cinque -. Lavoriamo per perfezionare l’incrocio fra domanda e offerta e i progetti utili per la collettività. E non tolleriamo abusi”. Più che migliorare lo strumento, però, si tratta di ripartire da zero. L’incrocio fra domanda e offerta, che introduce la fase-2 del sussidio, non si è mai realizzata. Soltanto il 31% dei beneficiari, a livello nazionale, ha firmato il Patto per il lavoro, cioè quello che ti propongono i Centri per l’impiego, e che risulta propedeutico alla ricerca di un’occupazione (o di un percorso formativo). Ma la situazione siciliana è persino più drammatica: rispetto ai 556 mila percettori dello strumento (dato aggiornato al 31 agosto), i Centri per l’impiego ne hanno convocati 130 mila, di cui 106 mila hanno firmato il Patto. Sapete quanti di essi hanno trovato lavoro? Seimila-seicento-sessantadue. L’1%.

Questi sono dati statistici, impossibili da smentire. Chi dice che il reddito, durante il Covid, è diventato “una camera di compensazione essenziale per le famiglie in difficoltà” (cit. Antonio Scavone, assessore regionale al Lavoro) dice il vero. Ma ora che la pandemia è agli sgoccioli, e ogni cosa dovrebbe tornare al suo posto, sarebbe onesto condurre un’analisi approfondita del fenomeno per scoprire che le cose sono state fatte male. Ad esempio, non è mai esistito l’obbligo della condizionalità. Uno dei principi cardine della misura introdotta dal M5s, di cui è madrina l’ex ministro catanese Nunzia Catalfo (che fra l’altro potrebbe diventare la nuova referente del partito in Sicilia), si riferiva al fatto che dopo aver rifiutato tre proposte di lavoro, il beneficio sarebbe decaduto. Ma quando mai… I Centri per l’impiego, sottodimensionati nell’organico, a volte non sono neppure riusciti a offrire una singola opportunità di lavoro: colpa di una banca dati carente, della mancata digitalizzazione, della pandemia, dell’Anpal, di tutto quello che vogliamo. Ma non ammettere queste negligenze pesantissime vuol dire fare un torto al Paese e alle persone oneste, compresi i veri indigenti. Dato che il Reddito di cittadinanza costa ogni anno oltre 7 miliardi e che il numero dei furbetti prolifera.

Secondo l’ultimo report pubblicato da Milena Gabanelli e Rita Querzè sul Corriere della Sera, a 123.697 persone il beneficio è stato revocato. Si tratta per lo più di furfanti di piccolo cabotaggio (come nel caso della banda di rapinatori a Perugia: dei sedici indagati, dodici sono titolari del Reddito); di gente che succhia risorse allo Stato e nel frattempo si concede pillole di lavoro nero; di boss e picciotti senza scrupoli (specialmente in Sicilia) che con l’assegno di Stato “schermano” l’illegalità del loro operato. Ordinaria amministrazione, insomma. Di questi episodi sono piene le cronache dei giornali. Ma non ci si stupisce neanche più. E i soldi persi è impossibile recuperarli. E’ molto complicato controllare tutte le richieste di poveri (veri e presunti), ma potenziare l’anagrafe nazionale, allo scopo di incrociare meglio i dati, permetterebbe di scovare a monte chi non ha diritto al beneficio. Ed evitare le megatruffe di cui sopra.

Siamo solo all’inizio. Sul tavolo di Mario Draghi, del Ministro Andrea Orlando e del nucleo di valutazione che sta passando al setaccio le debolezze della misura, ci sono vari dossier aperti. Alcuni dei quali potrebbero danneggiare (anche) la Sicilia. Numeri alla mano, risulta che il 66% dei beneficiari del Rdc vivano al Sud e nelle Isole. Ma qui la soglia di povertà, come calcolato dall’Istat, è nettamente più bassa rispetto al Nord (627 euro a Palermo contro gli 840 a Milano). Eppure l’assegno non è calibrato sul tenore di vita, ma sul reddito individuale – per i single – che non deve superare i 780 euro al mese. Per cui un milanese che ne guadagna 800, pur essendo povero come un palermitano che ne prende 620, sarà tagliato fuori dal beneficio. Questa è una stortura che pesa sui poveri del Nord Italia, e che come tale ha vita breve. L’altra questione riguarda single e famiglie. “Un single può prendere 780 euro – si legge sul Corsera -, una famiglia con un figlio minore, per il reddito di cittadinanza ce la può fare con 1.080 euro, con tre figli sotto i 10 anni con 1280 euro. Una disparità enorme. E il contributo per l’affitto è sempre lo stesso (280 euro) per un sigle come per una famiglia di 5 persone. La scala che assegna le risorse va quindi riparametrata in funzione del costo della vita dei territori e del numero dei componenti, che oggi penalizza esageratamente le famiglie con figli”.

Questi difetti di fabbrica riguardano la fase-1, quella relativa all’erogazione del sussidio. Più ci si addentra nei meandri del reddito, più ci si accorge che le cose non funzionano. Il sistema della condizionalità di cui si parlava all’inizio, è un’altra cosa da rimodellare. Non si può campare di sussidi per sempre, sarebbe diseducativo. Soprattutto tenendo conto che una parte delle risorse a disposizione (7 miliardi, appunto) potrebbero finanziare i casi di estrema necessità: secondo l’ultimo rapporto Caritas, il 56% degli indigenti non percepisce il Rdc. “Se tu dai 4-500 euro a qualcuno ma non gli fai trovare lavoro – ha attaccato Matteo Renzi, sostenitore di una proposta referendaria per abolire lo strumento – non solo non combatti la povertà ma condanni quella persona alla povertà permanente e ad essere dipendente dal politico. Questo, specie al Sud, crea un meccanismo per cui c’è un voto di scambio, è allucinante”. “In Sicilia rispetto ad altre regioni – ribatte l’assessore Scavone – una riposta in termini di posti di lavoro c’è stata. Ma non c’è dubbio che, una volta attenuata la parte più drammatica generata dal blackout del Covid, c’è chi si è adagiato sul reddito di cittadinanza, tanto che nel settore turistico molti operatori hanno lamentato la difficoltà a reperire i lavoratori stagionali”.

L’avviamento al lavoro è una questione intricata. In parte perché una buona fetta della platea non è candidabile, come spiega l’Inps. Ha grosse lacune sul piano dell’alfabetizzazione, non ha frequentato la scuola e quindi, con tutta la fatica del caso, deve essere avviato alla “gavetta”. Gli altri – al netto dei divanisti conclamati – faticano a fare il grande passo. Non soltanto per colpa loro. Gli strumenti a disposizione dei Centri per l’Impiego, compresi i navigator, non bastano. La riforma degli ex centri di collocamento, che sarebbe dovuta costare un miliardo, non è mai entrata nel vivo. E la prospettiva di reclutare 11.600 dipendenti in tutto il territorio nazionale, per unirsi agli 8 mila già presenti, è svanita nel nulla: da aprile 2019, infatti, le assunzioni sono state una manciata (949) e anche la Regione siciliana fa un’enorme fatica per pubblicare il bando che prevede 1.135 nuovi posti di lavoro. “Inoltre – come segnalano Gabanelli e Querzè nella loro inchiesta – nella stragrande maggioranza dei Centri per l’impiego finora hanno fatto solo pratiche burocratiche e non politiche attive. Per aiutare i poveri a rimettersi in pista e cercare lavoro servono forze adeguate, un metodo organizzativo condiviso fra le Regioni e l’applicazione delle regole. E se necessario commissariare le Regioni che non riescono ad assicurare livelli essenziali delle prestazioni, come è previsto dalle norme”.

Un’alternativa al lavoro – nella logica di contrastare il ‘divanismo’ – è l’attuazione di progetti utili alla collettività. I PUC sono progetti a titolarità dei Comuni, da organizzarsi anche in forma associata, in precisi ambiti di intervento ovvero tutela dei beni comuni, in ambito culturale, sociale, artistico, ambientale, formativo. La partecipazione del percettore del reddito di cittadinanza è obbligatoria per un periodo minimo di 8 ore settimanali (prolungabili a 16), pena la segnalazione all’Inps cui può seguire la revoca del beneficio. Eppure qualcosa non funziona. In Sicilia soltanto il 38% dei Comuni li ha attivati. Una percentuale risibile rispetto alle esigenze degli enti locali, che oggi sono alle prese con bilanci striminziti e con la impossibilità di garantire i servizi. Anche il Comune di Palermo è fermo al palo, sebbene qualcosina comincia a muoversi.

Non c’entra il sindaco Orlando, che un anno fa aveva annunciato l’apertura dei primi cantieri grazie ai beneficiari del Reddito. C’entra Leonardo Canto, consigliere comunale del gruppo Azione-Più Europa, che nei giorni scorsi è tornato a sollecitare un intervento: “La crisi finanziaria del comune di Palermo è oramai nota. Dalla polizia municipale ai servizi cimiteriali ai settori per la tutela del patrimonio artistico e della pulizia della città tutti i dirigenti lamentano una endemica carenza di personale ed una conseguente impossibilità materiale di erogare dignitosamente servizi alla cittadinanza. In questo contesto l’attivazione dei PUC (progetti utili alla collettività) risulta quantomai essenziale per utilizzare le risorse umane dei volontari percettori del reddito di cittadinanza al fine di coadiuvare il personale del comune e delle partecipate nello svolgimento dei servizi istituzionali che l’ente è tenuto ad erogare. Gli oneri per il comune sarebbero quasi irrisori stante che perfino la copertura assicurativa dell’I.N.A.I.L. è a carico del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali. Diversi comuni in Italia hanno già attivato i PUC, risulta incredibile la circostanza per cui l’amministrazione comunale di Palermo (città ove risiedono 30 mila nuclei familiari circa percettori del reddito di cittadinanza) non abbia ancora attivato questi progetti”. Incredibile ma vero.