«Vuote le mani, ma pieni gli occhi del ricordo di lei», queste le parole che il poeta arabo-siculo Ibn Hamdis dedica alla Sicilia, ormai perduta dopo la conquista normanna alla fine degli anni mille. Un verso dalla forza contemporanea, citato da Leonardo Sciascia ne “La corda pazza”, come emblematico della rappresentazione poetica del tema della nostalgia e dell’esilio, che fa parte di una raccolta di oltre seimila versi che compongono il famoso Canzoniere, espressione della fusione tra Oriente e Occidente. Ne era affascinato anche Franco Battiato, che gli dedicò il suo progetto musicale, Diwan-L’essenza del reale, in omaggio ai 150 anni dell’Unità d’Italia. Ibn Hamidis era nato a Siracusa nel 1056 da una famiglia della nobiltà araba e vissuto a Noto, da dove fuggì nel 1078, con l’arrivo dei soldati normanni. Come i migranti che oggi si avventurano nel Mediterraneo, il poeta fuggì dal porto di Marzamemi, diretto a Al-Andalus e, una volta giunto a Siviglia, fu accolto alla corte araba del principe e mecenate Muhammad al-Mu’tamid.   Eppure ebbe sempre nostalgia per la Sicilia e tanti furono i versi che dedicò all’amata isola: «Ma più che il valicare il mare, secondo me, son dure le cose che ti costrinsero a passarlo». La sua poesia, come quella di altri poeti arabo-siculi, inspirò la metrica, la ritmicità e la sonorità delle liriche siciliane e provenzali, fino ai sonetti e alle allitterazioni di Jacopo da Lentini della Scuola poetica siciliana, questa definita da Dante come precorritrice del Dolce stil novo.

Un altro frammento di poesia arabo-sicula, questa volta del filologo e poeta Ibn al-Qattâ, Coppe di stelle nel cerchio del sole, dà il titolo alla mostra appena inaugurata a Palermo presso la Galleria regionale della Sicilia – Palazzo Abatellis, nona edizione del progetto di residenze d’artista, Viaggio in Sicilia, proposto dall’azienda vitivinicola Planeta. Versi riferiti al vino e ai fenomeni naturali per celebrare le preziose tracce di una ricca produzione e di un’incancellabile mescolanza di culture. L’occupazione della Sicilia da parte dell’Islam è riconosciuta dagli storici come un periodo di notevole sviluppo, che ha lasciato un’impronta indelebile nell’agricoltura, nell’ingegneria, nell’arte e nella poesia, contribuendo – tra le altre cose – alla nascita della scuola poetica siciliana. Ne era convinto anche l’archeologo palermitano Antonino Salinas (1841-1914) che già nel 1873, quando assunse la direzione del Museo Nazionale di Palermo, oggi Museo Archeologico regionale a lui intitolato, progettò l’allestimento della Galleria del Medioevo, nota anche come “Sala Araba”, segnando il cambiamento di paradigma di un’epoca, in anticipo rispetto al resto d’Europa. Salinas, sotto l’influenza dell’illustre politico, storico e orientalista Michele Amari (1806-1889), docente di Arabo presso l’Università di Firenze e Ministro della pubblica istruzione del nuovo stato unitario, espose oggetti diversi che, testimoniando l’influenza del periodo di dominazione islamica nell’isola, rivelavano come questa fosse parte integrante della specifica identità regionale siciliana, risultato di amalgama culturali. Un’esperienza che oggi potremmo definire “oltre l’orientalismo”, in riferimento all’omonimo saggio del 1978 del docente della Columbia, Edward Said. Qui infatti lo studioso riformula il concetto di “orientalismo”, da lui inteso quale insieme di immagini e stereotipi dei quali l’Occidente si è servito per esercitare il proprio dominio sull’Oriente e, sulla base di false concezioni, lo considera quale luogo dell’alterità, in cui risiedeva tutto ciò che per la cultura europea non è “Occidentale”, “l’altro”. Infatti, nell’allestimento concepito da Salinas per la sua “Sala Araba” nel Museo Nazionale di Palermo, gli elementi arabo-islamici – ed anche ebraici – sono intesi come fattori interni e imprescindibili della propria storia regionale. In seguito, poco dopo la morte del Salinas, una volta smontata la sua “Sala Araba”, alcuni degli oggetti esposti finirono nei depositi del museo dove rimasero per oltre un secolo. All’indomani della Seconda Guerra Mondiale, poi, alcuni dei manufatti confluirono invece nella collezione della Galleria regionale della Sicilia – Palazzo Abatellis.

La mostra, a cura della scrivente, con una sezione storica a cura di Evelina De Castro direttrice di Palazzo Abatellis, presenta al pubblico 10 opere di quattro artisti contemporanei, Bea Bonafini (Bonn, 1990), Gili Lavy (Gerusalemme, 1987), Emiliano Maggi (Roma, 1977) e Diego Miguel Mirabella (Enna, 1988), quindi un testo di Chiara Barzini (Roma, 1979) e le fotografie di Matteo Buonomo (Cinisello Balsamo, 1991), il tutto accostato ad una selezione di 10 oggetti inediti provenienti dalle collezioni islamiche di Palazzo Abatellis. Questi ultimi, tutti custoditi nei depositi, sono stati presentati per la prima volta al pubblico in questa sede.

L’allestimento della mostra trae spunto dalle immagini d’archivio dei primi del Novecento che ritraggono la “Sala Araba” con il monumentale lampadario, restaurato dai Planeta in occasione di questo progetto espositivo, grazie ad una virtuosa collaborazione tra pubblico e privato nell’interesse della valorizzazione dell’arte. «Il lampadario», commenta Evelina De Castro, direttrice della Galleria, «diventa emblematico della continuità fra un passato reinterpretato e idealizzato e il contemporaneo, consapevolmente libero da storicismi e sovrapposizioni. Gli altri materiali delle collezioni Abatellis scelti per l’esposizione, rispondono al criterio dell’inedito, dei materiali più ricorrenti, quali il legno e metallo, ma soprattutto a presentare oggetti che raccontano storie di passaggi d’ uso, in cui le forme e i repertori, calligrafia, figure e stilizzazioni geometriche e fitomorfiche, provenienti da modelli aulici, divengono fonti per il contemporaneo». Insieme a quest’opera, una selezione di altri manufatti in metallo e legno che raccontano e sono testimonianza non solo della multiforme varietà di oggetti provenienti dalla collezione Abatellis, diversità dovuta alle tante ed eterogenee svariate collezioni in questa confluite nel corso del tempo a seguito di confische, donazioni o acquisizioni, ma anche attestano la modernità della visione museografica del Salinas, in anticipo rispetto ai tempi ed in contrasto con le concezioni museografiche del tempo, per le quali esistevano dei pregiudizi per tutto quello che non fosse stato riconducibile alla cultura classica greco-romana. Senza dubbio la visione estetica del Salinas, libera da pregiudizi e gerarchie di ogni sorta, fece di lui un precursore dei contemporanei “cultural studies”. Infatti fu questa concezione, probabilmente troppo evoluta per quei tempi, che lo indusse a presentare il più compiutamente possibile quella che era stata l’evoluzione delle arti e della vita culturale della Sicilia nel corso dei secoli, attraverso l’esposizione al pubblico nelle sale del museo di svariati manufatti risalenti a differenti epoche e culture, diversi per fattura, qualità e preziosità dei materiali. Fu grazie al quel progetto espositivo che si evinse l’importante ruolo della cultura arabo-islamica nel patrimonio culturale della Sicilia. L’elemento multiculturale fortemente presente nell’isola, definiva così quella singolarità della cultura siciliana per la quale la Sicilia si diversificava profondamente dalle altre regioni italiane. Evelina De Castro, parla di una «dialettica fra sopravvivenze ed eredità, fra studi, ricerche filologiche e documentali, suggestioni e revivals ricorrenti nel tempo, attraverso cui si snoda il percorso della cultura islamica in Sicilia. Dalla “Sala Araba” dell’originario Museo Nazionale, ricca di contaminazioni orientaleggianti e aperta al collezionismo di fine Ottocento, si giunse alle scelte espositive dell’odierno Palazzo Abatellis, che dal Medioevo fin sulla soglia del Rinascimento, segna il percorso dell’arte in Sicilia con le opere di cultura figurativa islamica provenienti dal territorio, prevalentemente a partire dall’età normanna. In tal senso questo progetto, incontra il programma sistematico portato avanti dalla Galleria nelle numerose occasioni di partecipazione a mostre internazionali, per la valorizzazione delle sue collezioni di arte islamica, dalla epigrafia, ai metalli, alle ceramiche ai legni intagliati, fra memorie del territorio, revivals e collezionismo, per l’appunto. Un percorso che spontaneamente si allaccia a questo progetto», conclude De Castro.

Questa mostra non vuole soltanto ricordare la visionarietà delle scelte espositive del Salinas, ma anche celebrare l’importanza della riscoperta in quegli anni della poesia arabo-siciliana, sempre per merito di Michele Amari, che nuova luce doveva portare sulla cultura araba presente in Sicilia.  Infatti lo studioso, mentre andava riordinando e pubblicando il materiale destinato alla sua monumentale Storia dei Musulmani di Sicilia (1854-1872), diede alle stampe nel 1857 a Lipsia la Biblioteca arabo-siciliana. Allora altri cominciarono a dedicarsi all’argomento e anni dopo, Celestino Schiaparelli, discepolo e amico di Amari, nel 1897, a Roma pubblicò il Canzoniere di Ibn Hamdis (per completare l’opera avviata dal suo professore che lo aveva pregato, in punto di morte, di portare a termine la traduzione dall’arabo), l’unica opera a noi arrivata completa.

Da sempre gli artisti contemporanei studiano le opere esposte nei musei e, per questo progetto, oltre alla residenza nomade dello scorso ottobre attraverso i territori vitivinicoli e la Sicilia meno conosciuta, i già menzionati artisti Bea Bonafini, Gili Lavy, Emiliano Maggi e Diego Miguel Mirabella, seguendo le tracce della cultura araba nell’Isola, si sono confrontati con le opere della collezione Abatellis. Durante e dopo il viaggio, un riferimento costante è stata la lettura dei versi di alcuni dei più famosi poeti arabi di Sicilia, nei quali la capacità descrittiva e la delicatezza dello sguardo, creando opere di grande suggestione, raccontano della magnificente bellezza dei luoghi di allora e non solo. E sia che si tratti dei palazzi e giardini reali di Palermo, tanto cantati dai due poeti Abd al-Rahmàn, o garbate descrizioni di mare in tempesta, guerre o il rimpianto di un esiliato, negli scritti del più significativo dei poeti arabi, il già citato Ibn Hamdìs, la scuola poetica arabo-siciliana lascerà, nella sua ricca produzione, una preziosa traccia di un’indelebile fusione di culture.

L’artista Gili Lavy ha realizzato un’opera sonora, in collaborazione con il musicista Jacopo Salvatori, dal titolo “Journey XII” dove vengono evocate parole della lingua franca mediterranea, detta Sabir. In questa lingua si svolge un suggestivo dialogo, qui cantato, fra due viaggiatori per mare, quel mare che esercita tutto il suo fascino, colto dalla Lavy, non appena si esce dal portone di palazzo Abatellis su via Alloro. Quindi l’artista si riferisce al museo come spazio di transizione contenente molteplici identità mutevoli, talvolta fuse, metafora della Sicilia come immenso archivio di culture in migrazione. E riesce a far rivivere nello spazio museale anche lo spirito antico di quelle mura, un tempo convento per monache di clausura, espressione di quel sovrapporsi di strati che tanta ricchezza offrono a chi è capace di cogliere il senso del tempo che diventa storia, come qui avviene. Emiliano Maggi ha realizzato tre sculture in ceramica e bronzo, come delle brocche che simboleggiano i versi e la figura del già citato poeta arabo-siculo al-Ballanūbī, anche questo riscoperto da Michele Amari nell’Ottocento. Diego Miguel Mirabella presenta invece un’installazione con stoffe, una tempera su tavola di legno e un lavoro a mosaico, realizzate con la collaborazione di artigiani marocchini, come ulteriore sviluppo della sua indagine sulle strutture grammaticali del decoro e dell’ornamento. L’elemento narrativo è sempre molto importante per la ricerca di Mirabella eppure, anche se appaiono delle parole nei suoi lavori, queste sono sempre misteriose, sembrano nascondere un segreto. Si tratta di poesie spezzate, come lui stesso le definisce, tali che, nel corso del tempo, riunendo tutti i suoi lavori, possano diventare esse stesse una narrazione, esprimendo così il suo modo di essere siciliano. Ma sono parole in parte celate dietro le decorazioni, dando solo qualche indizio circa l’essenza che, più che rivelata deve solo intuirsi, dando luogo a quel nascondimento che costituisce un altro elemento fondamentale del suo lavoro. Bea Bonafini è l’unica degli artisti che, oltre a presentare un’opera realizzata appositamente per l’occasione, espone anche un grande tappeto-arazzo in moquette del 2018. Quest’ultimo, dal titolo “Il Trionfo”, è stato realizzato in riferimento al celebre affresco, “Il Trionfo della Morte”, custodito nel museo, la cui iconografia particolare è riconducibile all’ampia diffusione del repertorio cortese in pittura, miniatura, arazzeria, arti decorative e nelle illustrazioni della trattatistica sulla caccia o negli erbari. Il tema della caccia con il falcone, in particolare, è tipico del repertorio islamico: tra i passatempi del principe era uno dei preferiti e assunse un ruolo di primo piano tra i motivi decorativi di ceramiche, avori e legni dipinti dalle manifatture sicule di tradizione araba. A tal proposito vale la pena di ricordare la passione per la caccia, in particolare per quella con il falcone, dell’imperatore Federico II di Svevia al quale si deve il celebre “De arti venandi cum avibus”, trattato ornitologico-venatorio che attesta gli interessi scientifici del sovrano svevo e della sua colta corte.