La brace non è ancora diventata cenere. Sotto è arroventata, nonostante il ritorno (per nulla trionfale) di Nello Musumeci a palazzo dei Normanni. Per due settimane di fila, complice la relazione di metà mandato e la replica dei partiti, il presidente della Regione ha messo piede a Sala d’Ercole, siglando una tregua col parlamento dopo gli “sfoghi” dei mesi scorsi. Mercoledì, però, il governatore se n’è andato via con una mozione di sfiducia sul groppone, opera dei Cinque Stelle; e con la netta impressione di una ferita rimasta aperta. Il redde rationem non è ancora arrivato.

In Musumeci prevale un senso di incompiuto. Non stiamo parlando, non solo, delle riforme in attesa (dai Beni culturali all’Edilizia, passando per l’Urbanistica e i Rifiuti); ma del rapporto con le opposizioni, sempre più precario. Lo testimonia la dura invettiva di alcuni esponenti del Pd, con in testa Antonello Cracolici che lo ha dipinto come un presidente tutto “chiacchiere e distintivo”; lo scontro feroce con Claudio Fava sulla questione morale; l’abbandono polemico dei grillini, per non aver ricevuto in tempo utile la maxi-relazione sul suo operato. Il ruolo del governatore è stato svilito senza impaccio e senza remora da chi, negli ultimi mesi, ha dovuto subire i suoi continui attacchi d’ira. E adesso non è più disposto a perdonare.

Bisogna dare atto a Musumeci, almeno a parole, di averci provato. Prima con una parziale retromarcia (“Serve un clima meno avvelenato, un linguaggio meno violento, dentro e fuori dal palazzo. E’ un appello a tutti, per primo a me stesso”), poi col tentativo di imbonire i rivali con la promessa di collaborazione (“Serve un dialogo e un confronto aperto fra governo e assemblea. Senza pregiudizi e preconcetti. Ognuno nel proprio ruolo, ma tutti consapevoli che abbiamo il dovere di cambiarla questa Sicilia”), infine cercando di ristabilire una verità “storica” che però vacilla: “Io ho grande rispetto di questo parlamento”. Ma non è facile cancellare dalla memoria le celebri sfuriate di questa legislatura, che talvolta hanno varcato il confine dell’offesa personale (oltre che istituzionale).

Come il 29 aprile scorso, primo giorno di dibattito sulla Finanziaria, quando il presidente della Regione non riuscì a resistere, e di fronte alla richiesta di Sammartino di utilizzo del voto segreto, la fece fuori dal vaso: “Lei dovrebbe vergognarsi – è stato l’esordio di Musumeci, rivolgendosi al rivale, catanese come lui, di Italia Viva –. In un momento in cui tutta la comunità siciliana si aspetta chiarezza da questo parlamento, lei chiede di votare di nascosto. Si vergogni lei e chi asseconda la sua richiesta. Io abbandono l’aula, è un fatto etico al quale non posso assolutamente aderire. Mi auguro che di lei e di quelli come lei si occupino altri palazzi”. Vale a dire la magistratura. Un chiaro riferimento all’iter giudiziario in cui è implicato il deputato renziano, accusato di corruzione elettorale. La baraonda fu placata dall’intervento di Micciché, che stigmatizzò le parole del governatore: “Ha detto una cosa che non doveva dire”. Musumeci, tacciato di “squadrismo” da Italia Viva, abbandonò l’aula in segno di protesta. Come avvenuto qualche mese prima – era fine novembre – dopo la bocciatura dell’articolo 1 della riforma dei rifiuti.

In quell’occasione, adirato per il tracollo della propria maggioranza, Musumeci si scagliò sui “franchi tiratori” per vie traverse. Attaccando, cioè, un sistema di voto garantito dal regolamento dell’Ars e su cui lo stesso Musumeci, dai banchi dell’opposizione, non ebbe nulla da ridire nel corso della precedente legislatura. Il governatore ha agito, ancora una volta, minacciando di non tornare indietro: “Il governo regionale non andrà più in aula fino a quando non sarà abrogato”. E in effetti, per un po’ di tempo, nessun esponente del governo si presentò in aula, ad eccezione di Toto Cordaro, l’assessore delegato ai rapporti con il Parlamento. Rapporti che di fatto non c’erano più. Morti e sepolti sotto il tappeto dell’asprezza dialettica. La modifica regolamentare, però, non è mai andata in porto. Così Musumeci non ha potuto fare a meno di tornare. Prima per gli attacchi a Sammartino, poi per la relazione di metà mandato, rispondendo a un obbligo previsto dall’articolo 160-bis del regolamento dell’Ars (in realtà la relazione andrebbe illustrata ogni sei mesi).

Ma c’è un fatto nitido che supera le parole: prendersela con il Sammartino di turno, e quindi con le opposizioni, sembra l’arma tattica che consente a Musumeci di tenere in pugno la sua maggioranza, che non è mai stata numericamente attrezzata né coesa. I “franchi tiratori”, da che mondo è mondo, sono parte integrante dalla coalizione di governo. E le assenze “mirate”, in alcuni passaggi parlamentari di rilievo (il solito disegno di legge sui rifiuti), sono state il tratto distintivo di un centrodestra monco: da un lato per effetto di una legge elettorale rivedibile, dall’altro per il logorio costante. Dare addosso all’opposizione, e reclamare da essa la “responsabilità istituzionale” che manca persino ai suoi compagni di viaggio, si è rivelato un boomerang. Le ultime operazioni di palazzo, come la creazione di ‘Ora Sicilia’ e la scissione dei grillini responsabili, ha permesso al presidente di continuare a galleggiare. Senza migliorare, tuttavia i rapporti con l’altra ala del palazzo.

Nel corso dell’ultima seduta, la più tranquilla della serie, lo scambio d’accuse con Claudio Fava è stato durissimo. Quell’ “onorevole Fava, che fine ha fatto la sua etica?”, pronunciato dopo la debacle sui rifiuti, ha avuto un sequel. Di fronte all’accusa delle “imbarazzanti omissioni” sul tema della corruzione, pronunciate dal presidente dell’Antimafia, Musumeci è tornato all’attacco: “Il deputato Fava la smetta di usare un linguaggio cifrato, le mezze parole, gli ammiccamenti e le allusioni: un linguaggio che appartiene alla migliore tradizione della peggiore antimafia. Se ha argomenti deve riferire alla procura della Repubblica”. Ma è il rigurgito di settimane di tensioni, in cui Fava era stato tranchant sull’assenza prolungata del governatore: “Probabilmente Musumeci pensa – come il duce – che questo Parlamento sia solo un’aula sorda e grigia da trasformare in un bivacco di manipoli: ha sbagliato secolo, e per fortuna non dispone di alcun manipolo. E’ grave che all’inettitudine di questo governo si sommi ormai un disprezzo così profondo verso le istituzioni parlamentari”.

Un disprezzo che riemerge dagli ultimi interventi di Antonello Cracolici: “Musumeci non viene perché ha paura del parlamento – ha detto l’ex assessore all’Agricoltura a Buttanissima -. La verità è che non ama il confronto. La sua narrazione è costruita su un’idea statica della Sicilia. E quindi il parlamento, che per sua natura è lo specchio rappresentativo di una realtà complessa, risulta un luogo di fastidiosa negazione delle sue certezze. Come quelli che non amano i processi partecipativi – ha rincarato la dose -, anche Musumeci disprezza il parlamento e lo reputa un luogo in cui si perde tempo. Come nel Ventennio”. I paragoni scomodi col Duce, dettati dalle origini di destra mai rinnegate, sono un classico della legislatura in corso. Il “fascista perbene” Musumeci ha imparato a conviverci. “Verso il Parlamento ho sempre avuto un atteggiamento di grande rispetto che continuo ad avere pure ricevendo calci negli stinchi, ma bisogna avere pazienza”, disse il governatore nell’ottobre 2019, dopo che Micciché gli ricordò di non poter contare sui voti dell’opposizione, ma di dover rinsaldare le fila della maggioranza. Perché è così che si fa la politica.

Il rapporto con il presidente dell’Ars, per il capo del governo, è un altro tasto saliente e dolente di oltre due anni di legislatura. Musumeci non ha mai nascosto il proprio fastidio per la gestione dell’aula (ma il confronto è aspro anche sulle poltrone e sulla politica).  Miccichè non ha mai potuto sottrarsi al ruolo di garante assegnatogli dal parlamento. Così, anche a distanza di tempo, e pur apprezzando il tentativo di stemperare gli animi, il capo dell’Assemblea ha ribadito il concetto: “Musumeci – ha confermato Micciché a Buttanissima – deve rendersi conto che l’opposizione fa l’opposizione. Se li convincesse a parlare bene di lui sarebbe un’istigazione al suicidio. Parlarne male, invece, rientra fra le regole della politica. Per questo trovo che la rabbia del governo nei confronti delle opposizioni, talvolta, sia stata esagerata e immotivata”. L’ennesimo inno alla responsabilità in un rapporto – politico e personale – a corrente alternata. L’obiettivo è evitare nuove scosse.