Agrigento doveva essere il simbolo della rinascita. La vetrina di una Sicilia che si riscopre colta, moderna, accogliente. Invece è diventata il monumento all’improvvisazione: infiltrazioni d’acqua sul tetto del Teatro Pirandello poco prima dell’inaugurazione, governance in perenne fibrillazione, rendiconti che non tornano e un dossier pieno di sogni e vuoto di risultati. L’ha certificato la Corte dei Conti, con duecento pagine che suonano come una sentenza: undici contestazioni, zero evidenze di crescita. Secondo i giudici contabili, non si registra alcun incremento significativo dei flussi turistici o dell’imposta di soggiorno rispetto agli anni precedenti, segno che l’iniziativa non ha prodotto la spinta economica attesa. La “Capitale della Cultura” non ha generato cultura, né sviluppo.

Eppure la Regione guarda avanti. Ha messo il timbro sulla candidatura di Catania 2028, pronta a rigiocare la stessa partita con lo stesso schema e, forse, con gli stessi giocatori. Come se Agrigento non fosse stata l’ennesima occasione persa: una città che doveva raccontare la Sicilia migliore, e invece ha raccontato quella di sempre: appalti in ritardo, fondazioni opache, comunicazione faraonica (754 mila euro) e risultati invisibili.

Dietro c’è un’idea distorta e antica: che la cultura e il turismo servano non a generare valore, ma a muovere denaro. Il capolavoro resta la stagione di Manlio Messina, ieri assessore al Turismo e oggi – udite udite – candidato in pectore alla presidenza della Regione. In un’intervista a Repubblica ha tuonato: “La Sicilia è sparita dagli aeroporti e dalle stazioni”. E ha perfino aggiunto: “Di questo passo il turismo calerà”. Un’allerta che suona come una barzelletta, se si pensa che la stagione del suo assessorato è quella di Cannes (la rassegna fotografica da milioni di euro affidata senza bando a un avventuriero lussemburghese) e di SeeSicily, il più costoso piano di promozione mai partorito da Palazzo d’Orléans: 75 milioni di euro, di cui 24 solo per la comunicazione, e un finale con l’Unione Europea che revoca fondi e chiede indietro dieci milioni.

Insomma, i “risultati” della corrente turistica sono sotto gli occhi di (quasi) tutti: spot patinati, ricche commesse e un’inchiesta della Procura di Palermo che ha aperto un vaso di Pandora. Dentro ci sono finiti Galvagno e la sua ex portavoce Sabrina De Capitani (già key account della Absolute Blue: fu lei a introdurre Messina nell’orbita di Cannes); ma anche l’assessora Elvira Amata, Marcella Cannariato, la Fondazione Dragotto, e una lunga lista di imprenditori “amici” che avrebbero garantito a Galvagno e la sua famiglia biglietti per i concerti e abiti su misura. Tutti protagonisti di un sistema che ha scambiato la promozione culturale per un gioco di favori.

Galvagno è indagato per corruzione impropria, ma anche per peculato, falso e truffa. Al vaglio degli inquirenti sono finite le utilità che quelli del suo cerchio magico avrebbero ottenuto in cambio dei contributi concessi dall’Ars alle iniziative fuffa come “Un magico Natale”. La giostra non si è mai fermata. E’ sempre andata avanti. Con Auteri, ad esempio, l’ex deputato regionale di FdI (oggi alla Democrazia Cristiana di Cuffaro) che ha indirizzato fior di milioni, attraverso leggi regionali, alle associazioni rette da familiari.

Dopo Messina è arrivata la Amata, che ha ereditato la macchina dello “spendi & spandi” e continua a farla girare: soldi alla Film Commission, concerti a Natale, show a Capodanno. Il Volo alla Valle dei Templi (900 mila euro pubblici, registrato ad agosto e venduto come evento natalizio) o il Capodanno con la Panicucci a Catania (due milioni di euro e un solo fornitore, Mediaset) sono tra gli esempi più celebri. L’obiettivo dichiarato era “rafforzare l’immagine della Sicilia nel mondo”. Quello reale: fare l’occhiolino a Fininvest.

Nel frattempo il presidente Renato Schifani ha assistito in silenzio, tranne per il teatrino emerso l’estate scorsa a Palermo, quando l’evento benefico organizzato con Tommaso Dragotto (per la realizzazione di un poliambulatorio pediatrico a Villa Belmonte) prese una bruttissima piega. Poteva chiudere i rubinetti, commissariare la gestione del Turismo, chiedere una valutazione seria degli impatti economici dei “grandi eventi”. Ma non l’ha mai fatto, né ha risposto alla convocazione del M5s all’Ars, dove i contiani avrebbero voluto mettere alla berlina il “metodo”. Perché il Turismo, in questa legislatura, è il prezzo da pagare alla fedeltà di partito. Il prezzo per non far arrabbiare La Russa & Co.

Così la Sicilia continua a finanziare la cultura con la stessa logica con cui finanzia le clientele: senza controllo, senza misura, senza ritorno. Non importa se l’info-point di Agrigento apre con mesi di ritardo, se le rendicontazioni non si trovano, se i turisti restano gli stessi. È la cultura del favore, travestita da promozione. Una liturgia che sopravvive a tutti gli assessori e a tutte le stagioni, perché garantisce visibilità e consenso. Ma che non porta un euro in più ai ristoratori, né un volo in più nei cieli siciliani.

E adesso che Agrigento arranca, la Regione rilancia: “Sosterremo Catania per il 2028”. Un annuncio che suona come una minaccia. Perché se questo è il modello, ogni Capitale della Cultura rischia di diventare una Capitale dello spreco. Resta una domanda semplice, che nessuno vuole pronunciare: tutti questi eventi, questi festival, queste campagne da milioni, quanti turisti hanno portato davvero? Quanti pernottamenti, quanta destagionalizzazione, quante ricadute? Finché nessuno lo saprà dire con un numero, la cultura siciliana resterà ciò che è oggi: una scenografia costosissima, senza pubblico e senza trama.