Maria Falcone, il volto più gentile e cerimonioso dell’antimafia militante, ha scritto una nota dolente perché l’ex procuratore Pietro Grasso, miracolato da Pierluigi Bersani nel 2013, non è stato ricandidato al Senato della Repubblica. Ce ne faremo una ragione. A Grasso non è andata poi tanto male: per cinque anni è stato al vertice di Palazzo Madama; porta a casa le onorificenze che spettano legittimamente a chi ha ricoperto la seconda carica dello Stato e un ricco, ricchissimo vitalizio. What else?

La sorella di Giovanni Falcone, il giudice dilaniato nel maggio del ‘92 a Capaci dal tritolo mafioso, avrebbe potuto consolarsi con il turn over messo in moto in queste ore dal Movimento Cinque Stelle: esce da Palazzo Madama Pietro Grasso e al suo posto entrano due campioni dell’antimafia, altrettanto intrepidi e titolati. Il primo è Roberto Scarpinato, ex procuratore generale di Palermo, già approdato nei libri di storia in uso nelle scuole elementari: negli anni delle stragi, mentre tutti cercavano i killer e i mandanti di Cosa Nostra, lui si inventò la boiata pazzesca della Trattativa, un teorema sconfessato dalla Corte d’Appello e anche dai supremi giudici della Cassazione, ma con il quale lui ha convissuto per tutta la vita, scrivendo articoli di fondo per il Fatto quotidiano e saggi di voluminoso spessore per Micromega. Il secondo campione convolato a nozze con il partito fondato da Beppe Grillo è Federico Cafiero De Raho, ex procuratore nazionale antimafia, come Pietro Grasso, che per oltre cinque anni ha annunciato la cattura prossima ventura di Matteo Messina Denaro, la grande primula rossa di Cosa Nostra, ma il risultato non è mai arrivato. Dettagli, comunque. Ai fanatici della materia i risultati non interessano. E non interessa nemmeno il merito. Preferiscono gli eroi che vanno a caccia di trame oscure e di regie occulte, che ipotizzano complotti e servizi deviati; e che soprattutto non nascondono l’ambizione di riscrivere la storia d’Italia, riducendo così la vita della Repubblica a un continuo patto scellerato tra la politica e le organizzazioni criminali.

Fino all’altro ieri eravamo convinti che la confraternita della Trattativa – pane quotidiano per trasmissioni televisive come “Report” di Sigfrido Ranucci o “Atlantide” di Andrea Purgatori – avesse una leadership compatta, unita e indissolubile. E che Roberto Scarpinato fosse il fraternissimo alleato di Nino Di Matteo che, da rappresentante dell’accusa nel processo celebrato dentro l’aula bunker dell’Ucciardone, ha toccato punte di popolarità talmente alte che gli hanno consentito di essere incoronato come membro togato del Consiglio superiore della Magistratura. Ma una dichiarazione di Antonio Ingroia – l’ex procuratore aggiunto di Palermo che imbastì l’inchiesta della Trattativa e arruolò come “nuova icona dell’antimafia” il pataccaro Massimo Ciancimino, figlio e ventriloquo di Don Vito, sindaco democristiano e complice dei sanguinari corleonesi di Totò Riina – ha scombinato all’improvviso tutte le carte del gioco.

A differenza del truce Luca Palamara, reliquiario vivente delle nefandezze inconfessabili della magistratura, il ringalluzzito Ingroia non ha chiesto a Scarpinato di chiarire i suoi rapporti di amicizia con Antonello Montante, un reuccio dell’antimafia dei dossier e degli affari. In compenso ha elencato, con acribia giurisprudenziale, i motivi per cui Di Matteo resta il solo eroe duro e puro dell’antimafia chiodata mentre Scarpinato, travolto dalla sua fascinazione verso il potere, ha contrattato la propria candidatura con Giuseppe Conte, capo dei Cinque Stelle: un movimento che, oltre ad avere approvato in parlamento l’orrenda riforma Cartabia, orrendamente impregnata di garantismo, si porta dietro la colpa di avere mantenuto al ministero della Giustizia quel Fofò Bonafede che, subito dopo le elezioni del 2018, chiamò Di Matteo per promettergli la potente direzione dell’Amministrazione penitenziaria ma il giorno dopo si pentì e assegnò l’incarico a un magistrato di profilo più opaco ma sicuramente privo della devastante vocazione di utilizzare il palcoscenico delle carceri per aumentare il proprio prestigio e alimentare la propria vanità.

La requisitoria di Ingroia – che non a caso si è già candidato con il partito comunista di Marco Rizzo e ha trascinato con sé nell’avventura elettorale Gina Lollobrigida, 95 anni, che lui assiste come avvocato – spiazza un altro santone della Confraternita dei Chiodati: Salvatore Borsellino, fratello del giudice Paolo, saltato in aria con gli uomini della scorta, cinquanta giorni dopo la morte di Falcone, nell’attentato di via D’Amelio a Palermo.

Dalla tragedia delle stragi mafiose alla farsa del suo tormento elettorale il passo, per Salvatore Borsellino, è stato breve. Il giorno prima – come racconta lui stesso – raccoglieva le firme per aiutare Luigi De Magistris, altro campione delle porte girevoli tra magistratura e politica, a presentare la propria lista; ma “alle due di questa notte – ha confessato su Facebook – ho letto per la prima volta il rilancio di agenzia che dava notizia della candidatura di Roberto Scarpinato e la mia unica paura è stata a quel punto di svegliarmi stamattina e rendermi conto che si trattava solo di un sogno”.

Quando ha verificato che il sogno non era un incubo e nemmeno un abbaglio, Salvatore Borsellino ha mollato De Magistris e si è schierato, ipso facto, per Scarpinato la cui candidatura gli è sembrata, manco a dirlo, “estremamente coraggiosa”. Ora però, dopo la scomunica di Ingroia, è ripiombato nel dubbio più atroce. Lui, “il fratello del giudice Paolo” – che in nome della santissima inchiesta sulla Trattativa, non esitò ad abbracciare e baciare in una pubblica piazza il pataccaro Ciancimino – è stato un devoto di Nino Di Matteo. Lo ha difeso, adorato e consacrato come il migliore apostolo dell’antimafia. Gli ha persino conferito il dogma dell’infallibilità. Pensate che quando Fiammetta Borsellino, la più giovane figlia di Paolo, ha sollevato dei dubbi sul ruolo di Di Matteo, allora giovane pubblico ministero a Caltanissetta, nel depistaggio delle indagini su via D’Amelio, lui è andato su tutte le furie e ha invitato a mezzo stampa la nipote a chiedere scusa al magistrato e a non scalfirne per nessuna ragione il mito. Ora sarà costretto a scegliere: voterà per Ingroia che è rimasto fedele a Di Matteo o per Scarpinato che ha fatto la sua trattativa per un posto al Senato con il partito che ha prima illuso e poi tradito Di Matteo?

Mai l’antimafia ha avuto una coscienza così lacerata come in questa vigilia elettorale.

Post scriptum. Dopo una terza notte di tormenti, Salvatore Borsellino ha deciso di rientrare dallo smarrimento per Scarpinato e di riabbracciare il partito di Luigi De Magistris. Non vuole rischiare, votando M5s, “di contribuire ad eleggere persone per cui non nutro sinceramente la stessa stima”, come Federico Cafiero De Raho, “quello che a causa di un’intervista ad Atlantide nella quale non svelava niente che non fosse processualmente noto, aveva radiato Nino Di Matteo dal pool di indagini sulle stragi, per avere poi, tardivamente, un ripensamento, inutile dopo averlo pubblicamente delegittimato”. Notti tormentate e anche un po’ ingarbugliate quelle dell’antimafia chiodata. (gs)