Un mio caporedattore – che adesso non è più – al quale una volta venne voglia di approfondimento su un tema palpitante della cronaca, propose (ma in realtà intimò, come facevano tutti i caporedattori) “un’inchiesta tipo New York Times”. Lo disse con la faccia più motivata e seria di questo mondo ma sul momento sembrò una tale iperbole da entrare in quell’ironico lessico quotidiano che ogni giornale possiede come patrimonio familiare e che non fa fatica a trasformarsi in tormentone. Insomma, un po’ per celia (leggi: sfottò) e un po’ sul serio (leggi: dài, ragazzi, alzate le chiappe e cercate qualcosa) quando si doveva evitare che un argomento si ammosciasse come un soufflé e bisognava mettercela tutta perché invece restasse morbido e spumoso al palato del lettore si ricorreva al “ci vorrebbe un’inchiesta tipo New York Times”.

Ecco, ci vorrebbe “un’inchiesta tipo New York Times” su una delle attività economiche di sicuro più fiorenti a Palermo, una di quelle che maggiormente incidono sul Pil cittadino, quella che in una Capitale della Cultura si potrebbe classificare sotto la dizione “son et lumiére” ma che, più terra terra, potremmo definire botti e luminarie. Ovviamente, per via di tradizioni ed eventi popolari, tale attività è soprattutto appannaggio del centro storico cittadino ma essendo il centro storico di Palermo uno dei più vasti in Europa, capirete che il “fenomeno” assume portata di notevole rilevanza.

Fatti salvi gli eventi privati in luogo pubblico (dai compleanni alle scarcerazioni, salutati quotidianamente da scoppiettanti condivisioni, poco più che brevi tric-trac, e da qualche ultracolorata insegna tipo prospetto del Sistina a Roma o del Nuovo a Milano), sono moltissime le occasioni religiose in cui, al fervore mistico, si associa quello ludico-spettacolare che spesso sopravanza la devozione stessa. Sui social, ad esempio, domenica scorsa, giornata nella quale si sono contemporaneamente celebrati tre o quattro tra Madonne e santi diversi, sono apparse suggestive immagini di luci che manco l’8 settembre a Piedigrotta (tanto per citare l’altra capitale del Regno) e ogni giorno tra strade e vicoli dei quartieri popolari è un monta-e-smonta-e-rimonta, un sali-e-scendi, un tira-e-molla di archi lignei, funi e ghirigori elettrici che se le pubbliche maestranze lavorassero con tale fervore si placherebbero almeno metà delle collettive lagnanze sui disservizi cittadini.

Stessa cosa per i fuochi d’artificio. Per i “botti” forse c’è il valore aggiunto di una gara a chi è più bravo e a minor prezzo – probabilmente tacita, non dichiarata, silenziosa (questa sì) – tra le varie ditte specializzate. Sempre le immagini apparse sui social rimandavano (e sempre domenica scorsa) una Palermo che, vista dall’alto delle terrazze attraverso l’occhio fisso o mobile degli smartphone, sembrava da un lato una città in festa da est ad ovest tra colorati scoppiettii e dall’altro, appena finito il fragore delle assordanti detonazioni, una città in guerra appena bombardata tra fumi residui di zolfo, magnesio, alluminio.

Siccome il giornalismo è quel brutto mestiere in cui occorre anche farsi gli affari degli altri, sarebbe curioso sapere quanto incide tutto questo sull’economia cittadina, quanto fattura, a quanta gente dà lavoro. Così, tanto per intonare un canto diverso dalla solita litania meridionalista, per capire origini, retroscena, curiosità di un’attività che tanto “sommersa” poi non è, perché illumina e fa “scrùscio” quotidianamente. Con “un’inchiesta tipo New York Times”.