L’ultimo punto di rottura è la candidatura di Ciccio Cascio a sindaco di Palermo. Con Gianfranco Micciché sponsor: “Il mio auspicio – dice il commissario regionale di Forza Italia, fresco di scontro con Nello Musumeci – è che su questo nome, storico e autorevole del centrodestra, la coalizione possa trovare l’unità sperata”. Lo stesso messaggio lanciato un paio di giorni fa da Nino Minardo, a supporto di un altro Ciccio, il leghista Scoma. Mentre l’Udc resta concentrato sulle mosse di Roberto Lagalla, che ha ricevuto l’endorsement di Lorenzo Cesa. Totò Lentini, invece, ha inaugurato la propria campagna elettorale al Multisala Politeama, sotto lo sguardo compiaciuto di Raffaele Lombardo. Neanche la Varchi, meloniana di ferro, intende recedere. Questo è il quadro del centrodestra a meno di due mesi dalle Amministrative di Palermo: una maionese impazzita. Un caos che nessuno, nemmeno i leader nazionali, sono riusciti a rintuzzare.

Il motivo è presto detto: riguarda la ricandidatura di Nello Musumeci a presidente della Regione. La partita è unica, fanno sapere da Lega e Fratelli d’Italia. Si giocano due mani allo stesso tavolo. La conferma di Musumeci alla Regione potrebbe sbloccare un’impasse insopportabile, così come la rinuncia al governatore uscente. Ma nessuno ha voglia di fare il primo passo. Un tentativo di mediazione lo offre Totò Cuffaro: “Non ricordo quanti erano i cavalieri della Tavola Rotonda – esordisce il segretario della Dc nuova – quel che è sicuro è che a Palermo ci sono già 7 candidati a sindaco nel centrodestra: Cascio, Scoma, Lentini, Lagalla, Faraone, Varchi e perché no, anche Romano. Palermo non è certo Camelot. Credo che la soluzione migliore, affinché Camelot non cada nelle mani di Mordred (la sinistra post orlandiana), sia che i cavalieri-candidati si chiudano nella sala del regno e, seduti intorno alla Tavola Rotonda, e senza i Merlino (partiti però senza magie), scelgano fra loro “Il Lancillotto””. Ci hanno provato a dirlo in tutti i modi: basterà, adesso, una metafora letteraria?

Visto quello che succede a Messina, non sembra. A casa di Cateno De Luca, infatti, la Lega di Salvini decide di sostenere il progetto di Federico Basile, individuato dall’ex sindaco per la sua successione. La conferma arriva da Nino Germanà: “Intendiamo accettare l’invito rivoltoci da Cateno De Luca e Federico Basile ad unire le forze per il bene di Messina in occasione delle prossime elezioni amministrative per la scelta del suo Sindaco e del suo Consiglio Comunale – dichiara il deputato del Carroccio -. È arrivato il momento, infatti, di superare sterili logiche di posizionamento che non tengono conto delle reali esigenze di Messina e della sua comunità, in nome di interessi di retrobottega e dei soliti noti, e di avviare un percorso virtuoso che attraverso scelte amministrative attente e mirate favoriscano la città e la sua crescita, restituiscano dignità ai suoi quartieri e proiettino i nostri giovani verso un futuro di speranza”. Quella di Germanà, però, somiglia tanto a una fuga in avanti. Subito ricucita da Nino Minardo, segretario regionale del Carroccio: “Rispetto per la posizione di Nino Germanà e nessuna preclusione rispetto ai percorsi e alle scelte future. Il nostro partito però non ha ancora deciso e siamo impegnati in queste ore in un confronto interno che auspico possa molto presto portarci ad una decisione su Messina ampiamente condivisa”.

Nel frattempo, a mezzo stampa e senza troppi complimenti, Gianfranco Micciché e Nello Musumeci se l’erano cantate. In un’intervista al Corriere della Sera, il commissario di Forza Italia era stato categorico: “L’unico nostro problema è Musumeci. Se non ci fosse Musumeci, non avremmo altri problemi. Ma non è che è un problema lui, come persona. Il problema è che se lo ricandidiamo si perde sicuro. Matematico. Ecco, se non risolviamo questo problema, difficilmente risolveremo anche gli altri”. A stretto di giro di posta era giunta, altrettanto categorica, la replica del governatore su Omnibus: “Miccichè ha problemi nel suo partito… Forza è divisa in due e lui è stato smentito… Io sono una persona seria, sono il presidente della Regione siciliana e come tutti gli uscenti che non abbiano commesso peccati mortali, ho diritto di presentare il mio ‘fatturato’ dopo cinque anni di intenso lavoro”. E ancora: “Forza Italia ha quattro assessori e nove dipartimenti con cui ho lavorato senza mai frizioni. Se io fossi ‘un problema’ i partiti, a cominciare dal suo, avrebbero dovuto ritirare la loro delegazione. E’ Miccichè, che è presidente dell’Ars e guida di Forza Italia in Sicilia, ad avere problemi col suo partito”. E infine: “Miccichè è convinto che bisogna governare chiamando la mattina i segretari dei partiti dicendo: ‘Oggi vorrei fare questo, che dite voi? Siete d’accordo?’. Questo è un modo di governare che i siciliani non voglio e che non appartiene alla mia formazione politica”.

Un putiferio mediatico e partitico che trova terreno fertile sui media nazionali. E per il quale non si intravedono soluzioni nel breve termine. Gli ultimi episodi, da analizzare sotto la lente d’ingrandimento, sono nell’ordine: il guanto di sfida lanciato da Sammartino – leghista – nei confronti del governatore, reo di aver tradito la promessa chiudere con la politica dopo 5 anni di governo; la replica di Giusy Savarino, portavoce di Diventerà Bellissima, che ha definito “incoerente” il deputato etneo per essere transitato dal Pd al Carroccio e “delirante” il presidente dell’Ars, per le dichiarazioni rilasciate martedì notte, alla cena del Vinitaly: “Contro Musumeci vincerebbe pure un gatto”. Il vicerè berlusconiano, usando come pretesto l’impuntatura di Musumeci, ha addossato le responsabilità di questa impasse agli alleati, rei di aver ceduto ai “capricci” del presidente. Di contro, gli alleati (la Lega in primis) imputano lo stallo a Forza Italia. E alla leadership azzoppata di Miccichè, che – nonostante la stima del Cav. – continua a convivere col fiato sul collo di Licia Ronzulli e di Marcello Dell’Utri. Per questo non ha potuto apporre la propria firma su un documento che la coalizione aveva predisposto per fermare l’avanzata del Musumeci bis. Quel foglio è rimasto nei cassetti. E potrebbe diventare presto carta straccia.

Arrivare a enfatizzare in questo modo, come ha fatto Micciché, è il sintomo di un malessere cronico, che inonda da mesi il vecchio centrodestra. Dove tutti i partiti, nessuno escluso, si sono spaccati a causa delle posizioni filo o anti-musumeciane. E qui arriviamo alla seconda questione. Proiettata al passato, più che al futuro. Qualunque partito abbia messo mano al dossier Musumeci, ha finito per scottarsi. Ne è un esempio Fratelli d’Italia, che solo di recente ha scelto di seguire la via indicata da Manlio Messina e Francesco Lollobrigida: conduce dritta al secondo mandato del governatore, nonostante lo scetticismo di un big come Raffaele Stancanelli e della base del partito. Anche nella Lega, però, esistono due correnti di pensiero: la prima, possibilista, di Nino Minardo, che dopo essere arrivato a un passo dalla rottura, valuta tutte le opzioni. La seconda, quella più oltranzista, appartiene a Luca Sammartino, che nelle ultime ore ha rilanciato un vecchio discorso del 2017 in cui Musumeci promette di non ricandidarsi: “Qualcuno evidentemente ha cambiato idea”, è il commento di Mr. Preferenze.

Poi ci sarebbero gli Autonomisti del redivivo Raffaele Lombardo. Sulla carta, federato del Carroccio. L’ex governatore di Grammichele, che da un lato fatica a placare l’esuberanza di Totò Lentini a Palermo, dall’altro resta in guardia, pronto a indirizzare il suo appoggio su Caterina Chinnici (se uscisse vincente dalle primarie del centrosinistra) per la Regione. Il suo “popolo” non ha mai nascosto un certo astio nei confronti di Musumeci, a partire dal vicepresidente dell’Ars, Roberto Di Mauro. Mentre i centristi, quelli dell’Udc, non sanno dove sbattere la testa. Vorrebbero salvaguardare l’unità della coalizione, ma hanno un problemino da risolvere. Roberto Lagalla, che si è dimesso dalla giunta regionale per candidarsi a sindaco di Palermo, potrebbe sparigliare le carte. A meno che Cesa non decida di richiamarlo all’ordine (fin qui non è avvenuto, anzi). Il Vinitaly, per il centrodestra, potrebbe aver avuto l’effetto di uno tsunami. Per ricomporre i cocci ci vorranno tempo, pazienza, sacrifici e forse anche un po’ di fortuna. Non è detto che basterà.