Riassunto brevissimo per chi (forse due o tre in tutto l’emisfero boreale) non sanno che cosa sia successo il 21 novembre: la sfilata-evento dei Dolce&Gabbana a Shanghai è stata cancellata dal Cultural Affairs Bureau di Shanghai dopo la colossale ondata di polemiche seguita alla diffusione di uno spot del duo, ritenuto sessista e razzista, e dopo che il sito diet_Prada ha pubblicato gli screenshot di insulti di Stefano Gabbana (non nuovo a episodi del genere) a una giornalista cinese che gli chiedeva conto degli stereotipi e della visione passatista della Cina contenuti nei messaggi. Nonostante la puerile denuncia di Gabbana per hackeraggio successiva alla diffusione dello screenshot in cui la Cina veniva definita come una “mafia maleodorante, sporca e ignorante”, il paese intero si è sollevato contro di loro. Da giorni circolano sul web foto di cinesi che puliscono il gabinetto con capi D&G o ci fanno dormire dentro il cane (sì, nei messaggi degli screenshot usciva anche la dicitura “cinesi mangiacani”). Le boutique D&G in Cina al momento sono difese da guardie, praticamente vuote. Abbiamo rischiato l’incidente diplomatico. I due hanno registrato un grottesco autodafé a mezzo video, a metà rivoluzione culturale a metà testamento dei prigionieri Isis, subito sbertucciato da Maurizio Crozza. Spiace, devo dire, per la famiglia Dolce, che da anni regge le sorti del gruppo insieme con l’efficacissima coo Cristiana Ruella. Spiace molto per il made in Italy nel suo complesso e per i lavoratori dell’azienda che, speriamo, non verranno toccati da questa valanga. Ma al di là delle decisioni che verranno prese in futuro sull’assetto della Dolce&Gabbana, ci sono quattro cose che, forse, i D&G nel loro complesso e anche noi giornalisti e comunicatori italiani potremmo imparare dalla vicenda.

1 – Sì all’ingaggio di mediatori culturali. Forse il commercio sarà globalizzato, ma i sentimenti nazionali no. Noi italiani possiamo ancora tollerare gli stereotipi carretto siciliano-cactus e la visione oleografica vecchia di 60 anni sul nostro paese che i D&G continuano a propinarci (come riusciate a farlo voi in Sicilia non riesco a capirlo, ma tant’è). Che la Cina potesse fare altrettanto con uno straniero che riduce i suoi simboli e la sua storia millenaria a una macchietta cheap sarebbe stato un po’ eccessivo. In più. La modella scelta dai Dolce&Gabbana era coreana. Direte voi, quisquilie in mezzo a un disastro mediatico come questo. E invece no. La modella coreana era una parte significativa del problema. Provate a infilare un belga in una campagna destinata al mercato francese e sentirete il fischio del boomerang un istante prima che vi stacchi la testa. Ci sono idiosincrasie che risalgono a fatti storici remoti, figurarsi a tensioni politiche recenti come in questo caso. Pare che l’ufficio cinese di D&G avesse avvertito il quartier generale dei profili potenzialmente esplosivi della questione. E’ rimasto inascoltato.

2 – Il cannolo. Il mondo è globale abbastanza da capire il sottinteso della scenetta in cui la modella cerca di mangiare il cannolo con le bacchette e la voce maschile fuori campo le sussurra “è troppo grande per te?”. All’universo intero non interessa se gli italiani ce l’abbiano più grosso, il cannolo: ma alle donne di tutto il mondo queste battute del cannolo fanno giustamente saltare i nervi. Anche perché i D&G non sono nuovi nemmeno a campagne sessiste. Nel 2007 il Giurì fece ritirare per incitazione allo stupro un’immagine pubblicitaria, scattata da Steven Klein, nella quale una donna veniva tenuta ferma a terra per i polsi da un uomo mentre altri quattro osservavano la scena. Non si era ancora in epoca social, ma anche allora, come adesso con quell’autodafé filmato di scuse, Stefano Gabbana e Domenico Dolce si cosparsero il capo di cenere, intonando una giaculatoria sul loro amore incondizionato per le donne. Iniziamo a temere che non le amino per niente. Di sicuro, non le capiscono.

3 – Dal potere dei social non si scappa. Che vi piaccia o no. Dando a tutti diritto di parola e di espressione, facendo sentire chiunque onnipotente, i social hanno dato fiato ai peggiori sentimenti e alle più becere invettive, dunque, anche alla massima espressione sociale del #mefirst, io per primo, cioè io e il mio paese. Ne parlava qualche giorno fa, nelle stesse ore del disastro mediatico e un gruppo di analisti di rilevanza mondiale invitati dalla Fondazione Prada a discutere di futuro digitale e fra i quali figuravano anche Nicholas Negroponte e Andrea Illy, presidente di Altagamma, che ha messo a fuoco un aspetto estremamente rilevante di questa evoluzione dei social media: “Il modello della società per azioni e soci definiti è superato. Ora, il modello da seguire è quello della società per stakeholders, o portatori di interesse, che comprende certamente gli azionisti, ma anche i consumatori, i fornitori, e tutte le persone che, a vario titolo, interagiscono con le aziende”. Per un’azienda e un brand mondiale, questi stakeholders possono ammontare a qualche miliardo.

4 – Il marchettismo senza limitismo è inutile. Per ore, terrorizzati dal potere pubblicitario dei Dolce&Gabbana e dalla loro proverbiale vis vendicativa, quasi tutti i giornali italiani hanno minimizzato l’accaduto. I lettori sono andati a informarsi altrove (giornali stranieri che non vivono solo di pubblicità e di timore, social eccetera) e hanno chiesto conto dell’acquiescenza della stampa italiana, di nuovo, a mezzo social. Una figura barbina che, anche questa, si sarebbe potuta evitare.