Tra cinque giorni sarà venerdì e quel che è stato nel rintocco alle nostre spalle – all’ombra dei campanili – non c’è più. Il giorno in cui l’Altissimo accoglie le condoglianze degli uomini ed è come una strana scena nel palinsesto di terza serata su Rai1: la Via Crucis.

L’ultimo fotogramma nel collage dell’immaginario è quello dello sforzo immane di Giovanni Paolo II – icona d’immedesimazione dell’Ecce Homo – ma non c’è altra colonna cui incatenarsi, adesso, che l’indifferenza.

Il disincanto del mondo ha strappato dal sentimento diffuso degli europei la sacralità del venerdì appunto santo, quello della settimana che comincia oggi e il martirio di Gesù sul Golgota evapora dal nostro orizzonte, come perfino la croce – il legno del condannato a morte – che non è più il segno identificativo dell’Occidente.

Il “Dio è morto” di Friedrich Nietzsche non è una professione di ateismo bensì un episodio del compimento della metafisica se quel che capitava nel Venerdì Santo dei Misteri oggi si trasfigura nel simbolo, più che nella vivida scansione del Rito.

Quel che accade in Andalusia, in Campania, in Sicilia e nel più vasto Sud del Sud dei Santi con le processioni di gente al seguito della carne martoriata ai più suona come folklore del pittoresco e solo per pochissimi – sempre più pochi, radunati nelle confraternite di popolo – è l’appuntamento col Segreto.

Un sabba di buio e di empietà. Come più avanti nel tempo, nel 680, nelle sabbie di Kerbala, una pioggia di frecce, spade e lance si avventa su Hosseyn – nipote di Maometto, figlio della figlia Fatima e di Alì – fino a farlo simile a un riccio.

E’ il giorno di Ashura, ossia il decimo giorno del mese di muharram. La testa mozza del Signore dei Martiri – questo è l’appellativo di Hosseyn – infilzata sulla punta di una lancia delle truppe ommaydi apre il macabro corteo per farne scempio.

Sale alta la luna in cielo, il freddo punge la notte della primavera e l’alito dei sepolcri avvolge di spavento il sangue dell’innocente chiamato all’effusione.

Come già è accaduto al disturbante Dioniso – nell’eucarestia delle Menadi che se ne cibano, squartandolo – così Cristo, nella sua Passione, flagellato, schernito, gettato dal ponte e poi ancora trascinato tra i lazzi dei traviati quasi preavvisati dell’oblio di oggi.

Il Golgota è, di fatto, cancellato dalla memoria. Ogni segno sacro nel calendario trova presto parodia: l’otto marzo delle donne sull’otto dicembre dell’Immacolata – e va bene, non si può dire… – quindi il primo maggio sul 19 marzo di San Giuseppe lavoratore, per non parlare di scherzetto o dolcetto di Halloween sul 2 novembre dei morticini, fino al XMas che di feste sacrissime ne sfascia almeno due: il Natale della mangiatoia e il santissimo Deus Sol Invictus dei devoti, pii e fortunati nostri antenati.

La freccia che scocca dall’arco del divenire si fa storia. E però è una mistificazione che quel dardo trovi traiettoria dal peggio verso il meglio dell’umanità emancipandoci tutti.

Il servo di scena nella rappresentazione – accanto alla colonna cui siamo incatenati, nell’Ecce Homo – è sempre lui, il buco nero che divora ogni riverbero di luce.

Mel Gibson, nel suo film ormai all’indice – The Passion, 2004 – gli diede le fattezze di un’affascinante Rosalinda Celentano. Ed è lui quello che se ne sta sul ponte. Per farci servi.