Il rosso scarlatto del musino del ministro Lucia Azzolina – il suo rossetto, anche in tonalità corallo – più che make up è già una citazione epocale: su quelle labbra sono tornati gli Anni ’50. Ma ancor più della titolare della Pubblica Istruzione sono i due Matteo – Renzi e Salvini – a intercettare la torsione dello Spirito del Tempo verso una certa idea della società: il vintage mai effettivamente dismesso dagli italiani.

Renzi che da sinistra decide di affiancare a sé Teresa Bellanova – rurale e volitiva – e non più l’impegnativa Maria Elena Boschi, smette con le sfumature della complessità smart e lancia un messaggio all’Italia che fu: quella ancora a bordo della Fiat Campagnola in vista della ripresa produttiva. E così ha fatto Salvini che sul “fu-dissociativo”, da sempre – da destra – costruisce la sua strategia pop. Come quando recita l’Eterno Riposo con Barbara D’Urso, in tanti ridono, ma con quell’ episodio – non spiegabile coi codici del galateo formale – il leader della Lega incamera un altro pezzo dell’ideologia popolare.

L’ultimo vero stile della nostra identità, il nostro styling è quello: gli Anni ’50. Il ciclotimico adeguarsi della politica al “modernariato” s’impone nella società attraverso una strategia puntuale, precisa e assoluta d’infatuazioni. Ci siamo affrancati dal frettoloso imperio della vita bassa, a pelo d’inguine – quella dei leader europei in camicia bianca – e l’informalità di oggi, quella di un Vincenzo Spadafora inciampa in una ricercatezza provinciale, tutta di borotalco e barba da due giorni.

Il corredo mentale della politica, oggi, è come un arredo in stile. Il riconoscersi della gente, infatti, si nutre esclusivamente di fattori affettivi, atti spiccatamente sentimentali, per forza di cose dissociati tra emozioni e raziocinio: veri propri travestimenti allusivi di nostalgia che vanno dalla devozione per l’incolpevole Padre Pio – come nel caso di Giuseppe Conte – a Goffredo Bettini, il commendatore dello status quo, ostentatamente demodé.

Il consenso si costruisce attraverso la ripetizione pedissequa di vecchi modelli. Anche il già capo politico del M5S, Luigi Di Maio – pur giovanissimo, pur postcontemporaneo – adotta un ben preciso stile fatto di forme che sembravano fossilizzate. I suoi Anni ’50 di capello corto, giacca e cravatta concorrono, appunto, alla promessa sottintesa: nell’uno vale uno, nel suo ruolo di predatore alfa si fa carico di replicare i tratti caratteriali di tutti gli omega al seguito.

Come con la cravatta, simbolicamente tolta ma subito tornata prepotente nella costruzione di sé, Di Maio incarna la vocazione che è proprio di ognuno in continuità e rottura. Un segno bellico, filmico e politico – è quello del nodo – per riprendersi, nel movimento, e presso l’opinione pubblica, tutto quello che è suo.

Le maniere si accavallano, i diversi generi vanno a perdersi nelle correnti concettuali ma non è più, questa, la stagione di una sontuosa Carole Alt chiamata a interpretare la sublime Marina Ripa di Meana. Non c’è l’ottimismo della volontà dei nostri primi quarant’anni, quelli trascorsi nell’età dell’oro degli Anni ’80 che sono stati gli unici anni a pretendere un’arrapante unicità orba di nostalgie. L’industria mediatica forgia l’immaginario ma apre il varco alla fase ciclotimica del nostro scontento nostalgico se l’intensa Anna Foglietta, oggi – a dispetto della sua stessa smaliziata ironia – è costretta al mesto brodino pedagogico. Il ruolo di Nilde Iotti in una fiction Rai, figurarsi. Il famoso vintage rosso in tonalità-corallo.