Cari amici artisti, onestamente credo vi siate impermalositi troppo sul «facce ride…» del premier Giuseppe Conte. Ammetto: il suo «…che tanto ci fanno divertire» non è che sia stato proprio il massimo della felicità espressiva, poteva far stillare qualche goccia dalla vena dell’amarezza, poteva far scaturire stupore nel sentirsi relegati ad uno soltanto dei fini del vostro magistero, poteva – ancora una volta – farvi sentire deprezzati o, come qualcuno ha suggerito, relegati al ruolo di guitti tout court.

Divertire. Vediamo un po’. Sono, giornalisticamente parlando, figlio di un’epoca di autocensure linguistiche che altro non erano che risacca di un certo ’68  autoreferenziale e autocertificante e che velavano (velavano soltanto) con una nuova ipocrisia una vecchia ipocrisia, paludata – quella antica – accademica, governativa tanto per restare nei paraggi della comunicazione che ieri sera vi ha fatto saltar su dal divano. A quel tempo scrivevo divertente in una recensione e… e no, non andava mica bene, sembrava riduttivo, diminutivo, addirittura contrario all’etica stessa della missione artistica. Un’interpretazione, dunque, poteva essere divertita ma non divertente. Pensate per un momento a quale distanza l’ipocrisia del nuovo linguaggio (intendo in termini giornalisti, attenzione, non voglio certo spaccare il capello in quattro con la semantica) metteva un participio passato aggettivante da un participio presente. Ne sarebbero arrivate altre di ipocrisie, quelle di carattere sociale: mia madre era cieca e cieca si diceva, non le ho mai sentito dire «non vedente», ma ad ogni epoca ne è succeduta un’altra che ha imposto le sue censure linguistiche, i suoi diktat espressivi, le sue ipocrisie lessicali.

Una sera, a Milano, una quarantina d’anni fa, si usciva da teatro e si andò a cenare, un gruppetto di critici, con gli artisti appena struccatisi in camerino (s’usava anche allora e senza la necessità di sentirsi troppo culo e camicia). Una giovane collega, a tavola, disse a un certo punto all’autore-protagonista-regista: «Beh, comunque ti confesso che stasera mi sono divertita un sacco». Calò il gelo, venne guardata dai colleghi militanti (allora eravamo tutti critici “militanti” e quanto questa cosa mi faceva e mi fa tuttora ridere è difficile spiegarlo: la buttavo sempre lì con il mio “militari e militanti metà prezzo”) con sguardi tra il rimprovero e il sospetto. La sventurata tacque colpita a morte da quelle lame oblique. Al che l’artista, che dall’alto della sua intelligenza non aveva per nulla colto quel generale imbarazzo, le rispose, dopo una delle sue risate aperte e tonanti: «E finalmente! Qualcuno che lo dice, francamente mi ero un po’ rotto i coglioni!». Brindisi, cin-cin. Quell’artista si chiamava Dario Fo.