Questa volta voglio scrivere di politica, lasciando perdere il Partito democratico, la destra, l’Assemblea regionale che ozia, la Giunta che non governa perché non ha la possibilità di farlo né un programma da realizzare.

Voglio scrivere di quello che dovrebbe essere uno dei temi veri del dibattito e del confronto pubblico, che viene sfiorato e poi lo si lascia cadere perché assorbiti, i nostri rappresentanti, dai conflitti, dai contrasti di potere e dalla esigenza di catturare i consensi. Tutto normale e legittimo, se collegato ad un disegno, ad un progetto, per usare un termine aulico ad una visione, ma che da solo diventa privo di valore, inadeguato a collegare gli interessi e le speranze della gente alle scelte di chi governa o comanda.

Voglio scrivere di politica con la P maiuscola e, per farlo, immagino di invitare quelli di voi che mi leggono a venire con me al mio paese, per avere la prova della desertificazione di una parte rilevante della Sicilia e del Mezzogiorno.

Venendo con me condividerete, se pure non con lo stesso impatto emotivo che provo, la dolorosa sensazione di un luogo quasi vuoto, quasi privo di vita, che pure mantiene la sua bellezza, la sua originalità, la caratteristica struttura arabo medievale.

Scoprirete, se non lo avete ancora fatto, un piccolo centro collocato in alto, tra le rocce, che sporge sul mare e il mare da lì si vede, quasi lo si tocca, lo si raggiunge con la vista attraverso una valle inframmezzata da colline di olivi e di aranci. Tutte le volte che vi torno provo la dolorosa sensazione di non trovare alcune delle persone che vi avevo lasciato, risultato tragico e inevitabile del tempo che scorre ed insieme vedo altre case vuote, porte serrate, balconi chiusi. Vedo il degrado di un centro storico ormai quasi del tutto disabitato. Cinquant’anni fa eravamo più di settemila e in quelle case vivevano donne e uomini. Vi erano bambini che con i loro giochi e il loro riso quasi coloravano le strade e vi si sentiva il vociare allegro e talora animoso delle donne che parlavano a voce alta e a volte litigavano.

A ripercorrerlo, quel mondo che rimane vivo nei ricordi e mi fa correre il rischio di apparire patetico, è finito, non perché si è trasformato sulla spinta della modernizzazione ma perché in cinquanta anni si è svuotato e la sua popolazione si è ridotta della metà. Nel corso del 2022, da 3310 la popolazione si è ridotta a 3228. Sono nati 17 bambini e sono morte 78 persone. Nel corso di 12 mesi, la popolazione si è ridotta di quasi 200 unità e se questo, a spanna, viene proiettato nel tempo, è facile prevedere ciò che accadrà fra dieci o vent’anni.

Troverete le strade deserte, diverse chiese, anche con opere di qualche importanza, abbandonate ad un lento degrado. Dei plessi scolastici, ne rimane attivo solo uno, che pure risulta sovradimensionato rispetto al numero dei ragazzi.

Vorrei portarvi a Caltabellotta chiedendovi di affrontare con pazienza la strada che la collega a Sciacca, difficile da percorrere perché bisogna salire fino a 900 metri e ancor più perché è ridotta allo stato di trazzera, richiamando la conclusione della prima commissione d’inchiesta parlamentare sulla Sicilia del 1876, allorché, per descrivere la condizione dei collegamenti della provincia di Girgenti, scrisse “provate a raggiungere Caltabellotta”.

Troverete che in questo luogo, dove chi rimane non vive male per la quantità di olio d’oliva che il territorio produce e per le pensioni e i sussidi con i quali lo Stato campa una parte considerevole dei propri cittadini, in questo luogo non esiste una libreria, si vendono cinque copie di giornale, la biblioteca rimane deserta, non vi sono iniziative culturali, poche e di scarso valore sono quelle di intrattenimento. Le stesse feste religiose, che mantengono anche un notevole valore civile e di identità della comunità, trovano crescenti ostacoli per la carenza di portatori delle vare.

La piazza, il luogo d’incontro, di scambi, risulta pressoché deserta. Lì la vita si svolgeva come in un teatro, nel quale si mettevano in scena tutti i suoi eventi principali. In quel piccolo slargo si aprivano tre circoli, tre bar, il cinema, la sede della Coltivatori diretti, delle ACLI, della Democrazia cristiana, del Partito comunista e di quello socialista. Pochi metri in giù, accanto alla chiesa, giovani si riunivano nell’Azione cattolica. Di tutto ciò restano un bar e un circolo, non si sa ancora per quanto.

Non c’è un luogo d’incontro per i giovani, se non il bar a bere e a fumare. Il campo di calcio è abbandonato da qualche decennio, risultando impossibile formare due squadre di undici elementi ed è sempre più problematico utilizzare quello di calcetto con le squadre composte da sette giocatori. Qualche anno addietro, mentre ero sindaco, mi ero illuso che la riduzione della popolazione per l’emigrazione e per il diseguale rapporto tra nascite e morti potesse essere frenata dalla presenza di una numerosa comunità di polacchi e principalmente di rumeni. Poi sono andati via quasi tutti e le case che avevano occupato si sono richiuse, l’asilo nido che avevano arricchito con i loro bambini è rimasto semivuoto.

Leggo le rilevazioni del censimento e, proiettandomi a qualche decennio a venire, scorgo il rischio della scomparsa dell’accumulo millenario di tradizioni e di storie che nei secoli passati spesso hanno consentito di intrecciare quella del paese con quella della Sicilia e del Mezzogiorno.

Se non venite subito con me, dopo troverete poche centinaia di vecchi ad accogliervi. Se mi seguirete, vorrei capire anche insieme a voi se il processo di desertificazione sia inevitabile, se non ci sia nulla da fare per impedire l’abbandono di intere zone della nostra regione, di una parte considerevole del suo patrimonio umano e culturale. Mentre altri posti, quelli vicini al mare, vengono devastati dalla cementificazione del suolo.

Da solo non riesco a proporre un rimedio per un problema che dal mio piccolo paese – da tutti i paesi dell’entroterra – si proietta sul mondo intero, investe i suoi aspetti più contradditori, riguarda le enormi incongruenze tra zone sovraccariche di popolazione con problemi di siccità, di fame e con tutto ciò che connota il sottosviluppo e spinge alla disperata fuga in cerca di un modo qualsiasi per sopravvivere, e altre zone, lentamente e inesorabilmente desertificate mentre altrove non si trovano donne e uomini per garantire i servizi e la produzione di beni essenziali. Forse anche su questa questione i vuoti tenderanno a riempirsi, malgrado i muri, quelli veri e quelli più alti, della paura o piuttosto dell’uso politico della paura. Le comunità non sono formate solo da chi vi è nato ma anche da chi ha deciso o è stato costretto a decidere di farne parte.

Non ho una soluzione da proporre e so quanto sia difficile. Penso che magari per questo, perché è difficile, tutti i nostri rappresentanti politici, quelli di Roma e quelli dell’Assemblea e della Giunta, lasciano perdere. Evitano di pensarci, così come fanno anche per i mutamenti climatici, al problema della desertificazione fortemente intrecciati. La politica, quella con la P maiuscola, dovrebbe assumerli come questione centrale. Dovrebbe avere l’ambizione di governare, di cercare risposte. Trova più comodo limitarsi a gestire per qualche tempo il potere, a comandare nell’indifferenza e nell’inconsapevolezza crescenti dei cittadini.