Non li capisco i responsabili, i costruttori, i voltagabbana in genere, quelli che ieri andarono in soccorso di Berlusconi e dei governi di centro-destra, da Salvini e dalla Meloni ritenuti alla stregua di patrioti e quelli che vanno oggi a puntellare il governo giallo-rosso, visti come difensori della democrazia contro i barbari in agguato.

Non riesco a catalogare un presidente del consiglio il quale, una sera dell’agosto del 2019, va a dormire alla guida di un esecutivo formato da Cinque stelle e Lega e il mattino successivo – stessa pochette, stesso aplomb grigio e anonimo, vagamente somigliante a quello di Alberto Sordi quando impersonava l’italiota medio -, si trova a capo di una formazione di diverso colore. Non riesco a dare un qualche valore a ciò che sta succedendo, probabilmente perché utilizzo le categorie della politica mentre più utilmente sarebbe necessario ricorrere, non se ne abbia nessuno, alle antiche fiere del bestiame che, al termine di ogni estate, si svolgevano nei nostri paesi con i rumorosi e colorati sensali a far da mediatori per gli scambi.

Non ho avuto l’opportunità di conoscere da vicino la fauna degli Scilipoti e dei Ciampolillo, nata dalla evoluzione (involuzione) della politica negli anni della gloriosa seconda Repubblica che tutti i mali della prima ha seppellito per aprire al Paese “magnifiche sorti e progressive”. Sono stato in Parlamento per parecchio tempo nel corso della mai sufficientemente vituperata prima Repubblica e ho conosciuto alcuni dei protagonisti della nostra storia, uomini di grande spessore culturale, di notevole severità morale e di autentico attaccamento alle istituzioni, ed insieme a loro ho visto all’opera esponenti di minore rilievo che assolvevano al loro ruolo con dignità e coerenza, e, poi, mediocri personaggi usciti dalle file della burocrazia di partito o dall’intreccio non sempre limpido dei voti di preferenza ed anche mestieranti che tentavano di piegare ai loro interessi il ruolo ricoperto. Non ho visto nessuno saltare da un partito all’altro, dalla minoranza alla maggioranza.

A quel tempo c’è stato Andreotti che ha presieduto un governo formato dalla Democrazia cristiana e dal Partito liberale italiano – di centro-destra fu definito – e, poi, uno di centro-sinistra con i voti dei comunisti – di solidarietà nazionale. Tuttavia tra l’uno e l’altro corsero sei anni, che consentirono a Moro e Berlinguer di tessere il difficile rapporto tra i due maggiori partiti e che furono caratterizzati da dibattiti e scontri di notevole rilievo all’interno delle forze politiche della cultura e della società. Al tempo della prima Repubblica si verificarono dissensi anche forti all’interno delle singole forze politiche, a cominciare – ne ricordo uno-, da quelli dentro la Dc sul primo governo Andreotti del 1972, l’anno del mio ingresso alla Camera dei Deputati, quando Donat Cattin, e la sua – la nostra – corrente, si rifiutò di far parte dell’esecutivo, tuttavia votando la fiducia e iniziando nel partito la battaglia per recuperare il rapporto con i socialisti. Durante i primi cinquant’anni della storia repubblicana non avvenne mai che qualcuno, ottenuta la guida del maggiore partito e da quella posizione arrivando a Palazzo Chigi, tentasse di svuotarlo, espressamente dichiarando di volere fare ad esso “ciò che Macron ha fatto con i socialisti” in Francia, dove li portò a meno del 5%. Una rottura all’interno della Democrazia cristiana, cerco magari impropriamente un qualche precedente, avvenne in Assemblea regionale, quando nel 1958 alcuni deputati lasciarono la Dc per dar vita al governo di Silvio Milazzo formato dai neofascisti del Movimento sociale, dai monarchici e dai socialisti e sostenuto dai comunisti. Ma quella è stata una storia del tutto diversa rispetto alle piccole vicende di questi tempi, una storia supportata da un disegno politico rilevante, seppure contraddittorio e pasticciato e con protagonisti di spessore, tra i quali Ludovico Corrao ed Emanuele Macaluso.

La transumanza degli anni più recenti in Assemblea non ha nulla a che vedere con quel precedente. Qualcuno ha preso la “trazzera” che da Cinque stelle li ha portati al sostegno della giunta, altri sono transitati dal Pd a Renzi, e i più sono passati da una parte all’altra della maggioranza, calcoli e convenienze seguendo.

Torno a ribadire la difficoltà di capire il motivo per il quale nella politica nazionale degli ultimi due decenni abbia svolto un ruolo di non secondaria importanza Sergio De Gregorio, “prezzato” a peso. Tra il 2006 e il 2008, dichiarò ai magistrati “Berlusconi mi pagò tre milioni di euro per passare a Forza Italia”, Domenico Scilipoti, agopuntore, propugnatore della medicina alternativa, fondatore del movimento di responsabilità nazionale, simbolo di tutti i voltagabbana, Antonio Razzi che andò anch’egli in soccorso di Berlusconi, perché, confessò, teneva famiglia e aveva il mutuo da pagare, aggiungendo che sarebbe stato pronto a votare anche Totò Riina se glielo avesse chiesto chi gli consentiva di onorare le rate e, ai nostri giorni, Alfonso Ciampolillo, il senatore ammesso dal Var a votare la fiducia che voleva curare la xylella con il sapone, il coronavirus con la cannabis e che dichiara di non volersi vaccinare.

“L’avvocato del popolo”, poi, assurto a indispensabile sul quale ruota l’equilibrio politico e in questa funzione ulteriormente rafforzato dall’improvvida iniziativa di Renzi, che perciò, pandemia aiutando, non si può svitare senza far crollare tutto, somiglia a quel vecchio penalista, il quale, non ricordando bene il ruolo di rappresentante di parte civile, con una arringa infuocata si lanciò a difesa dell’imputato e, quando il suo assistente gli sussurrò che era del tutto fuori strada, senza scomporsi, proseguì con la stessa sicumera affermando: “così avrei detto se fossi stato avvocato della difesa”.

Torno alla domanda iniziale: da dove è spuntata questa nuova fauna politica? Sicuramente dalla scomparsa dei partiti e, con loro, dei vincoli ideologici, culturali, di valori e di interessi che tenevano uniti, indicavano la direzione, erigevano confini.

Oppure questa fauna, piccola vanità di storico dilettante, è lo sviluppo delle larve del trasformismo che parevano estinte fino ai primi anni ’90, di quella specie nata e prosperata alla fine del 1800, quando Agostino Depretis sostenne di non potere chiudere le porte della sinistra storica a chi voleva “trasformarsi e diventare progressista”, larve che furono molto numerose e ben nutrite con Giolitti il quale rafforzava le maggioranze a sostegno dei suoi governi con la promessa di una croce di cavaliere o di una rivendita di sale e tabacchi per i capi elettori dei deputati, in particolare di quelli del Mezzogiorno. Lo statista di Dronero sosteneva, poi, che, per governare il Paese bisognava tener conto dei suoi difetti. “Il sarto diceva che chi ha da vestire un gobbo, se non tiene conto della gobba non riesce”. E chi gli poteva dar torto? Il problema semmai era che egli lisciava la gobba del Paese e lasciava che restasse ben prominente per far lavorare appieno la sua sartoria.

I politici di oggi continuano a lisciare la gobba e fanno di tutto per aderire perfettamente alle rughe della società, non avendo nessuna attitudine al ruolo pedagogico e di guida che dovrebbe esercitare una classe dirigente. Perché indignarsi, se mai c’è ancora qualcuno che si indigna nei confronti della nuova fauna politica? Forse bisognerebbe pensare alla “gobba” di un popolo che continuò a votare Berlusconi, malgrado De Gregorio e Scilipoti e malgrado le più liete olgettine e il bunga-bunga, quel popolo che colloca oggi Conte al primo posto del gradimento. C’è qualche problema, forse più grande della miseria del politicante che cerca di prolungare la propria permanenza sugli scranni del Parlamento, ricordandosi di ciò che disse con alata saggezza quel Razzi appena ricordato: “ma fuori di qui chi mi pagherebbe uno stipendio di dodicimila euro al mese?”.

Avrò indugiato anch’io nell’antipolitica? Può darsi. A volte il rischio di scivolarvi di fronte a ciò che si vede è difficile da contenere. Ma, se ancora qualcuno dovesse continuare a dileggiare la prima Repubblica, sarebbe legittimo mettere mano al revolver. Metaforicamente s’intende.

(Calogero Pumilia è stato deputato della Democrazia Cristiana ed è autore del libro “La caduta”’ edito da Rubbettino e da pochi giorni in libreria)