La memoria è un muscolo, dice l’attrice Viola Graziosi. Lei che allena tutti i muscoli, quelli di carne e di materia grigia, in palestra ripete i versi da portare in scena. È un pomeriggio di inizio febbraio quando Viola veste di demoni la sua mente. Si vede il buio dell’ora solare bussare alle finestre di un terzo piano. Scende la sera, il cielo quasi nero. Ma la memoria è accesa, il verso è inciso, e le prove a Palazzo Grazioli si aprono in un ruggito contro Giasone: “Nei tempi della quiete sarei stata la tua leonessa”. Così Viola diventa Medea, la maga della Colchide che per un’attrice di teatro è il punto al di là del bene e del male, il passo speciale di un rito iniziatico scandito da Antigoni, Ofelie, Elettre, Giuliette… Quando un’attrice cresce, segue il tracciato delle donne adulte. Smette di essere delusa come quelle ragazze e accantona i panni di vittima offesa. E sul palcoscenico va ben oltre se si getta nel buco nero di Ecate, la dea della notte, dove tutti gli opposti divagano. Viola arriva a Medea. Lo fa all’indomani della morte del padre, Paolo Graziosi, che insieme al gene attoriale le fa dono di uno stato d’animo. Colei che annienta i figli, del resto, era a sua volta figlia lontana dal padre… La barbara divina passa la lama sui figli avuti da Giasone. Si vendica così della sua slealtà. Sigilla gli occhi ai pargoli ché non vivano la vergogna del padre unito a un’altra donna, divenuto re di Corinto ai danni di una madre umiliata. Trasformata in bandita.

In quel pomeriggio di febbraio Viola guarda cautamente il copione sotto gli occhi. Poi guarda intensamente il suo pubblico, ancora scarno, disposto con lei attorno a un tavolo da riunioni. Sono le prime prove. Con gli altri, ad ascoltarla, c’è il regista Giuseppe Dipasquale e c’è l’autore del monologo, Luciano Violante. I tre si osservano, si scambiano idee. Spunti da esperti di tipi umani. Avevano già lavorato a una Clitemnestra. In quel caso, si dicono, Violante scriveva parole lisce, vestendo la donna di suoni dolci. Questa, invece, è la belva “estranea”, la signora combattente con indosso l’onta di “servasposa in terre straniere”. È una Medea consonantica e primitiva, dove ogni parola scelta chiude un mistero. Riservato, appunto, agli intenditori d’uomini.

L’attrice è la frontwoman che adesso si alza in piedi per dar fibra alla voce. Il regista la segue con lo sguardo, accenna all’esatta intonazione. L’autore li osserva, interviene di rado e poi si fa da parte. Di tanto in tanto scioglie un segreto nascosto nel testo. Se per esempio Medea ricorda il bosco sacro a Giunone, è con la mente là dove “Gli animali tacevano / Come quando il sole si oscura / Per il passaggio della luna”. Violante ritrova la strada del Vello d’oro in un suo sentiero di montagna. Nel mentre di un’escursione, racconta, al momento dell’eclissi le bestiole si erano fermate, incantate nel sortilegio della luna col sole. E in questo passaggio il regista si interroga sulla musica, se debba tacere anche lei. Le note disegnano immagini di un testo parallelo, con la morte che accompagna come una carezza antica queste primissime prove. Il Requiem di Verdi avvolge Viola-Medea, la assisterà fino al giorno dello spettacolo nella chiesa di San Domenico a Palermo, dinanzi alla tomba di Giovanni Falcone che quelle note ascoltava in macchina.

Medea vuol essere ed è una leonessa. Giuseppe Dipasquale lo ha spiegato all’attrice. Lei ha visto su YouTube decine di riprese nelle savane africane, e ha pian piano raggiunto un sentimento felino. Viola si aggira per la stanza carponi. In un momento di pausa racconta di aver inteso Medea nell’immagine della bestia che ammazza i figli per strapparli a un futuro infausto. La maga guerriera è una leonessa in cattività che soffoca la progenie. Mai lo avrebbe fatto nel suo habitat, dice Viola. L’esser lontana dalle radici barbare la porta all’infanticidio, esattamente come la cattività porta una leonessa ad annientare il suo stesso sangue. E così si capisce che il teatro è la terra dell’anti-idealismo. Il palcoscenico è il campo della realtà. Non si porta in scena un concetto, ripete Giuseppe durante le prove. “A un attore non si dice: mostrami la giustizia. Gli si deve dare un’immagine”. Il teatro è il sacello della sensualità, il tempio del corpo. È una pelle mossa dalla bugia, che a poco a poco invade la verità nello scandalo dell’esperienza. “Un’idea non mi sembra veramente attendibile se non appaga anche i miei sensi”. Potrebbe essere questo il motto di un attore. Lo scriveva il filosofo anti-idealista Manlio Sgalambro. Ed è facile pensare a lui adesso che riconosciamo in Medea l’immagine della terra a tre punte, la Sicilia. Clitemnestra era la regina clochard che Dipasquale immaginava simile a una scapigliata Alda Merini. Medea è l’isola che con finezza massacra la prole, è la terra ferina, stillante sangue di innocenti o forse ancor peggio di giusti. È una donna sinuosa come una leonessa che disfa se stessa. E ripercorre il suo sfacelo, questa volta dinanzi alla tomba di Falcone, il figlio che ha ucciso…

Intanto nel salone del terzo piano ci sono tre donne mentre lei, in scena, muove i suoi primi passi. In questa parentesi magica le tre, che madri non sono, non si chiedono più come possa una madre uccidere i figli. Non contrastano più con l’innaturalità di un gesto che la leonessa mostra esser tutto fuorché innaturale. Ascoltano Medea, si lasciano trasportare dalla sua tempesta sino a un arresto, quasi improvviso. L’attrice guarda le donne, eterne ragazze, che avevano già sentito bussare alle viscere la Medea chiusa in loro. Il lato oscuro che credevano sopito e che solo pochi minuti prima si stiracchiava al suono del cuore infranto: “Avremmo potuto avere un amore infinito”. Avevano dato ragione a lei, non a Giasone “stupido greculo”. Ma l’esito della vendetta ora le blocca. Viola-Medea affonda gli occhi nelle tre donne. Racconta il delitto. “Io li ho uccisi”. E chiede loro: “Voi cosa avreste fatto?”. E insomma, cosa avremmo fatto noi che madri non siamo ma ci sentiamo adesso madri e Medee? Lei ce lo chiede e ci squadra con le lacrime agli occhi. Rimaniamo sospese sinché un’interruzione ci salva da quest’apnea. Qualcuno apre la porta del salone, chiedendo di abbassare la voce. Benedetto guastafeste. Grazie a lui un sospiro di sollievo ci riporta in vita. Non siamo madri, non siamo Medee. E questa sera torneremo in case senza figli, senza erbe e pozioni, senza l’infido Giasone. E nessuno si farà male.

Dopo l’incursione nel quotidiano, Viola riprende il filo. A bassa voce ma più concentrata. Forse cercava anche lei quell’interruzione. Ne aveva bisogno come di un passaggio nell’ombra prima di tornare a scottarsi al sole. Lei che dal sole discende e al sole torna per mezzo di un carro alato. Il carro in questo salone è un divano rosso corallo, ed è l’asse attorno cui tutto ruota. Diventa barca cullante ricordi, altare sacrificale degli innocenti, velivolo di redenzione spinto da draghi alati. Medea atterra sull’isola che tanto le somiglia e per questo l’attende il 10 marzo a Palermo.

Pensare che solo due ore prima nel salone al terzo piano si discuteva di vite parallele nel Metaverso, di diritti e identità digitali, di guerre telecomandate… Di mondi futuribili. E adesso tutto il futuro si è mescolato a un tempo senza tempo. Nel pomeriggio di inizio febbraio l’attrice si muove accanto all’immaginale divano che torna divano, un po’ come noi che diventiamo madri e Medee ma alla fine siamo sempre noi stesse… In questi versi c’è la nostra catarsi. Siamo state assassine per qualche ora.

Stanotte dormiremo il sonno dei giusti ma prima, come scriveva René Girard, ci sazieremo di violenza. Una violenza splendida, certo, perché gli attori di teatro c’entrano niente con quelli che Hitchcock chiamava bestie. Gli attori di teatro sono dei sacerdoti. E non mentono quando coi loro divani alati ti portano in un altro mondo. Quel mondo in fondo già tuo da sempre, sul quale Medea, l’erede del sole, getta una luce di verità. E insomma, è il teatro. Altro che Metaverso.