Pioveva a dirotto quella notte di quasi cinquant’anni fa. I ladri entrarono in un oratorio della vecchia Palermo e staccarono la tela dalla grande cornice. Tra il 17 e il 18 ottobre 1969 iniziava il mistero. La “Natività con i santi Lorenzo e Francesco”, mirabile opera di Michelangelo Merisi, il Caravaggio, spariva nel nulla.

“Perché nella Palermo di fine anni Sessanta scomparivano le persone e anche le cose”, ha detto Roberto Andò al Foglio. Al regista palermitano si deve il momento più alto dell’attualizzazione di una caso di cronaca ancora irrisolto.

Alla Mostra del Cinema di Venezia il 7 settembre sarà proiettato fuori concorso il film “Una storia senza nome” che uscirà nelle sale il 20 dello stesso mese. Valeria (Micaela Ramazzotti), giovane segretaria di un produttore cinematografico, vive sullo stesso pianerottolo della madre, Amalia, donna eccentrica e nevrotica (Laura Morante), e scrive in incognito per uno sceneggiatore di successo, Alessandro (Alessandro Gassmann). Un giorno, Valeria riceve in regalo da uno sconosciuto, un poliziotto in pensione (Renato Carpentieri), la trama di un film. Ma quel plot è pericoloso. Da quel momento, la sceneggiatrice si troverà immersa in un meccanismo implacabile e rocambolesco.

“’Una storia senza nome’ è un film sul cinema, un atto di fede, ironico e paradossale, sulle sue capacità di investigare la realtà e di trascenderla. Si è sempre sostenuto che l’immaginazione – spiega Andò -, anche la più potente e visionaria, paghi il prezzo di una impotenza a priori: l’impossibilità di provocare effetti reali. Il mio film, in modo giocoso, e mi auguro divertente, mostra il contrario. Mi faceva piacere, in un momento in cui il cinema appare più fragile e marginale, raccontare una storia al cui centro ci fosse un film e il suo misterioso, imprescindibile, legame con la realtà. Con Angelo Pasquini e Giacomo Bendotti abbiamo scelto una vicenda leggendaria degli annali criminali italiani, il furto della Natività di Caravaggio, avvenuto a Palermo nel 1969, un tempo in cui la città era preda del crimine organizzato, cioè della mafia, e anche della più completa indifferenza civile. Quell’anno i ladri prelevarono il quadro dallo splendido Oratorio di San Lorenzo, scolpito dal grande scultore Giacomo Serpotta, e in una notte di pioggia lo portarono via con un’Ape- aggiunge -. Molti anni dopo, il pentito Francesco Marino Mannoia rivelò che si era trattato del primo furto su commissione eseguito dalla mafia. Raccontò anche di come la tela, al momento d’essere srotolata davanti al misterioso committente, si fosse sbriciolata in mille, minuscoli, frammenti. In seguito, altre deposizioni di pentiti contraddissero o amplificarono questa versione, sino a quando i mafiosi, poco prima degli attentati che colpirono Firenze, offrirono allo Stato la restituzione del quadro in cambio di un ritocco sostanziale del 41 bis. La strage dei Georgofili spazzò via, in modo definitivo, quell’assurda trattativa. Se custodire e tramandare la bellezza è la forma più elementare di civiltà, questo grado minimo in Italia è sempre stato a rischio. La nostra storia civile, densa di crimini e oscurità, offre infatti una cronaca mutilata di cui solo un atto fantastico può restituirci il senso. Ecco, il mio film è un atto fantastico. Un capolavoro rubato e dato in pasto ai porci, come riferirono altri pentiti, è infatti un racconto perfettamente aderente ai nostri trascorsi, un ottimo pretesto per un narratore che voglia creare una miscela tra fatti reali e fatti immaginati. Ora che il film è sul punto di uscire – conclude il regista – si annunziano nuovi sviluppi delle indagini, e si ipotizza che il quadro, dopo essere stato rubato da ladri comuni, fosse stato consegnato alla mafia, che, dopo averlo tagliato a pezzi, lo avrebbe venduto a un mercante svizzero”.

Perché ad attualizzare la storia del Caravaggio rubato ci ha pensato anche la cronaca. “Un quadro non scappa”, ha scritto il cronista giudiziario Riccardo Lo Verso nel libro “La Tela dei Boss” (Novantacento edizioni). Un’inchiesta giornalistica che apre uno squarcio nel buio e mostra la pista che può portare al ritrovamento del dipinto. Lo Verso parte dalle bugie di alcuni pentiti e, attraverso atti giudiziari inediti, traccia il filone investigativo che stanno seguendo i carabinieri del Nucleo tutela patrimonio artistico. Per la prima volta vengono svelati i nomi di boss e picciotti che hanno avuto un ruolo nella sparizione, a cominciare dai presunti autori del furto.

Un furto e un libro di cui è tornata ad occuparsi anche la stampa dopo che la Commissione parlamentare d’inchiesta ha dato input alle nuove ricerche. “I misteri del Caravaggio” è il titolo di un articolo pubblicato nei giorni scorsi dal quotidiano “La Sicilia”. Alcune tappe del soggiorno siciliano di Michelangelo Merisi mettono in discussione il suo percorso ancora oggetto di studio e di ricostruzione. “Della Natività si è sempre pensato che fu dipinta da Caravaggio al termine del suo soggiorno siciliano, nel 1609 a Palermo, dov’era conservata nell’oratorio di S. Lorenzo. Questo per lo meno facevano credere alcuni biografi, rivelatisi però non sempre attendibili. Ma di recente studiosi come Maurizio Calvesi, Michele Cuppone, Giovanni Mendola e Francesca Curti hanno ripreso con nuove prove un’ipotesi formulata negli anni ‘80, secondo cui il dipinto sarebbe da ricondurre alla produzione romana di Merisi e alla commissione diretta, nell’anno 1600, del mercante Fabio Nuti; questi richiese al pittore un dipinto specificandone solo le misure, nelle quali la Natività vi rientra”. Un’infinita spy story.