Il capo del Carroccio non è certo latore di una nuova idea di Europa, non sarà mai un novello Aristide Briand per intenderci, ma ha dalla sua il pregio di indurre a porsi, per contrasto, dei dubbi: i principi sui quali si regge l’Unione Europea possono anche essere sacri, ma la loro mise en forme è quantomeno perfettibile.
E’ innegabile che alcune cosucce qua e là scricchiolano: dal regolamento di Dublino, passando per la strategia comune nelle relazioni internazionali, per finire con la condivisione di una politica economica unitaria. In ordine crescente di importanza. La gestione dei flussi migratori, infatti, è certamente argomento di prim’ordine, ma senza sminuirne affatto l’importanza ritengo sia opportuno chiedersi prima di tutto a che titolo ci rapportiamo al problema. Perché non lo facciamo da europei, questo è certo. Lo facciamo da tedeschi e un po’ meno da cristiani quando paghiamo il Sultano Erdogan per tenere 3,5 milioni di profughi siriani lontani dai confini del Reich. Lo facciamo da francesi quando sosteniamo la necessità di impiantare hotspot in Africa che profumano di mission civilisatrice. Lo facciamo da italiani e certamente meno da polacchi quando ci opponiamo alle sanzioni economiche contro la Russia.
Forse è giunto il momento di chiederci cosa siamo e a nome di chi compiamo le scelte, tenendo bene a mente, ormai, che le conseguenze di queste non riguardano più ormai soltanto gli interessi di un’ottocentesca Ruhr o di una medievale Lega Anseatica, bensì quelli di cinquecento milioni di abitanti. Perché l’Europa avrà sì inventato la guerra totale, il nazionalismo, l’individualismo anarchico, ma ha anche concepito l’idea federalista e lo spirito dei Comuni. Dunque “tutto concorre a designarla come adatta a fomentare gli anticorpi capaci di immunizzare l’umanità contro quei virus che soltanto essa ha propagato”. Parola di Denis de Rougemont.