Non è facile dare un senso preciso all’uscita di Grillo in difesa della Cina e contro le decisioni assunte dai sette “Grandi” nel vertice di Cornovaglia. In un Paese normale, la posizione del comico non avrebbe avuto alcun risalto. Ma quel comico governa di fatto, senza alcun ruolo formale, la più grande forza del Parlamento, la guida fin dalla sua nascita e, negli ultimi anni, l’ha indotta a compiere le scelte di maggiore rilievo, dall’accordo con Salvini per dar vita al primo governo Conte, a quello successivo e di segno opposto con il Partito democratico e, infine, l’ha forzata per partecipare all’esecutivo di Draghi.

Con l’obiettivo di segnare il suo ruolo e di rendere palese una opinione difforme da quella del governo e della maggioranza, mentre il nostro Paese partecipava a quell’incontro internazionale, Grillo incontrava l’ambasciatore cinese a Roma, ottenendo un riconoscimento formale dalla superpotenza asiatica, assunta da lui e dal Conte1, come interlocutrice privilegiata, aprendole la “via della seta”, la strada di penetrazione economica e tecnologica in Europa.

Ora il “garante” riconferma quella scelta e mette in difficoltà Di Maio e lo stesso Conte che, ogni giorno di più, è costretto a prendere atto che la sua leadership sul Movimento, nella migliore delle ipotesi, potrà realizzarsi a mezzadria con il vero leader. La posizione di Grillo pone un problema politico che può diventare un vero e proprio macigno sulla strada della partecipazione del Movimento al governo del Paese. Se ciò avvenisse, si riproporrebbe, in un contesto certo molto diverso, la condizione che, per decenni, impedì al Partito comunista di essere riconosciuto come forza di governo e giustificò la conventio ad escludendum nei suoi confronti. Fu la politica estera dei comunisti, il loro filosovietismo, che per molto tempo si manifestò peraltro con l’adesione ad una comune ideologia, con la partecipazione ad organismi di coordinamento controllati da Mosca, con l’accettazione del finanziamento a sostegno delle proprie iniziative. Sulla politica estera, sulla revisione di una posizione che disallineava la maggiore forza della sinistra dalle scelte del governo italiano e dalla collocazione del Paese nel contesto occidentale, Berlinguer iniziò un difficile cammino che portò il suo partito all’astensione sul primo governo Andreotti nel 1976 e alla fiducia a quello del 1978, della “solidarietà nazionale”.

A proposito di un percorso che sfociò in una linea comune condivisa dalla sinistra, vi fu un passaggio importante nel quale ebbi un ruolo di qualche rilievo. Quando, nel febbraio del 1978, Aldo Moro terminò un memorabile discorso ai deputati e ai senatori democristiani per convincerli a superare le permanenti riserve sulla solidarietà nazionale, insistendo in modo particolare sui temi della politica estera, sul Patto atlantico e sulla NATO, si pose la questione di verificare quale fosse l’opinione dei gruppi sulle indicazioni di Moro. Per farlo – ero vicepresidente dei deputati democristiani – scrissi e firmai per primo un documento di approvazione nel quale insistetti proprio sulle questioni della politica internazionale, che avrebbe dovuto avere il nuovo governo, in linea con la tradizione dell’intera storia della Repubblica. Quei passaggi furono resi ancor più espliciti da una aggiunta del mio capo corrente del tempo, Carlo Donat Cattin, prima che cominciassi la raccolta delle firme. Quando si capì che il mio documento stava prevalendo sull’altro di segno contrario – lo ricordano Corrado Belgi e Guido Bodrato in una loro pubblicazione –, importanti dirigenti democristiani del tempo, si decise di stilarne uno comune, che diede il via alla formazione del governo. Si trovò l’accordo su molte questioni e in particolare sulla posizione internazionale dell’Italia per far cadere la pregiudiziale che aveva tenuto i comunisti all’opposizione. Fu necessario che essi, per bocca di Berlinguer, affermassero di sentirsi più sicuri sotto l’ombrello della NATO, piuttosto che sotto quello del Patto di Varsavia.

Per tornare alle questioni attuali. C’è una qualche analogia con quanto è stato richiamato, pure in un contesto storico profondamente diverso. La politica estera rimane un discrimine essenziale e, di conseguenza, la domanda su cosa abbia voluto intendere Grillo con la sua uscita filocinese e anti occidentale che ripropone la consueta posizione del Movimento e del Conte1, rimane senza una risposta precisa e apre scenari poco chiari.

Partendo dalla considerazione di una indubbia intelligenza politica del “garante” e della sua capacità di intervenire sulle vicende di maggiore rilievo con posizioni solo apparentemente strampalate, ma sempre frutto di una visione e di un disegno precisi, non si può escludere che egli abbia pensato intanto di ritagliare al Movimento uno spazio nettamente distinto da quello di Draghi e di alcune delle forze che lo sostengono, a cominciare dal Partito democratico, con l’obiettivo di recuperare l’identità originaria e almeno parte dei consensi perduti. Ma è anche probabile che, in vista di ciò che può succedere con le prossime elezioni nazionali e con un prevedibile successo della destra, Grillo stia già delineando per il Movimento un ruolo di opposizione che non lo obblighi a condividere con altre forze comuni disegni politici, in particolare sul versante internazionale, sulle alleanze sulle quali il nostro Paese è impegnato da decenni.

In ogni caso, con le sue affermazioni, il “garante” tende a riaffermare il proprio ruolo egemone sui Cinque Stelle, per ricordarlo a Conte e agli altri. Risulterà a loro difficile superare una ulteriore, consistente pietra d’inciampo sul cammino della difficile alleanza con il Partito democratico, a conferma di quanto sia improbo lo sforzo per cambiare la natura di quel Movimento. Anche su questi temi, nella ricerca di una intesa in vista delle elezioni nazionali, avendo già scontato l’impossibilità di raggiungere quell’obiettivo per le più recenti competizioni comunali e regionali, il segretario del Partito democratico dovrà riflettere. Dovrà prendere atto di quanto arduo risulti trovare un solido, stabile terreno d’intesa con una realtà sempre tentata di rimanere fuori linea, di mantenere una funzione utile per raccogliere e incanalare il dissenso e per marcare l’opposizione, ma del tutto inadatta per assumere le responsabilità di governo.