Io non c’ero. E se c’ero, dormivo. Suonano più o meno così le giustificazioni dell’assessore all’Economia, Gaetano Armao, di fronte all’impugnativa del Consiglio dei Ministri, che ha cassato 28 norme dell’ultima Finanziaria. Ventotto. Eppure Armao, forte delle sue certezze, ha gettato acqua sul fuoco: “La gran parte delle norme impugnate non sono di iniziativa governativa – ha subito tenuto a precisare il vicegovernatore – e comunque non determinano alcun effetto sugli equilibri di bilancio della Regione, né tanto meno nell’esame del disegno di legge di variazioni di bilancio che immette nuove risorse finanziarie per quasi 900 milioni di euro”. Il segreto di Armao è portarsi avanti. Sempre.

L’assessore non ha dato alcun peso, a differenza dei sindacati, alle refluenze che l’impugnativa romana avrà sul mondo del lavoro. “Si mettono in discussione le assunzioni sul personale della sanità impegnato nell’emergenza Covid, si blocca il percorso di stabilizzazione dei lavoratori Asu, si complica la trattativa con l’Aran per il rinnovo del contratto dei dipendenti regionali”, scrivono in una nota Alfio Mannino e Gaetano Agliozzo, rispettivamente segretari regionali della Cgil e della Funzione pubblica. In particolare, si mette a rischio il rinnovo dei 12 mila dipendenti regionali che avevano accettato a denti stretti le clausole proposte dall’Aran (senza riqualificazione del personale): l’impugnativa della norma sul trattamento accessorio complica tutto.

Il vicepresidente Armao, da assessore all’Economia, è il primo firmatario del Ddl Stabilità approvato dall’Ars. E non può certo sfuggire alle sue responsabilità. “Verrà penalizzato – scrivono Mannino e Agliozzo – chi come il personale della sanità ha consentito che fosse fronteggiata la situazione di emergenza che si è proposta, chi come gli Asu, molti dei quali impegnati nei siti culturali, di fatto contribuisce al funzionamento dei comuni, chi come i dipendenti regionali si spende per il funzionamento della macchina amministrativa ed altri precari”. A cominciare dal personale dell’ex dipartimento Foreste. Ma anche l’assunzione di 300 dirigenti a tempo determinato andrà accantonata finché la Corte Costituzionale non risolverà l’enigma.

Certo è che l’ultima Legge di Stabilità della coppia Musumeci-Armao è stato un parto lungo e, in parte, ingiustificato. Anziché approvarla alla fine del 2021, come previsto dalla Legge, l’assessore ha prorogato le operazioni, riempiendo il vuoto normativo con una legge per autorizzare l’esercizio provvisorio (impugnata anch’essa, in alcune parti) che avrebbe consentito alla Regione: a) di spendere in dodicesimi; b) di attendere l’esito dell’accordo di finanza pubblica con lo Stato per poter beneficiare di risorse aggiuntive. Secondo voi, al 30 aprile, le risorse aggiuntive si sono materializzate? No, ovviamente. Così la Finanziaria è stata pubblicata in Gazzetta con 5 mesi di ritardo, e con mezzo miliardo accantonato. Trattasi di risorse “congelate” in attesa della benedizione di Roma, arrivata di recente: 800 milioni, compresi i 500 utili a sbloccare la Finanziaria, verranno liberati con le variazioni di Bilancio, cioè il lascito di fine legislatura. Una manovrina elettorale assai corpulenta che sta prendendo forma nelle commissioni di merito dell’Ars in questi giorni.

Nell’opuscolo sui primi quattro anni alla Regione, che Musumeci ha fatto recapitare a sindaci e amministratori, l’assessore Armao è uno dei protagonisti: per aver abbattuto di 200 milioni il contributo annuo alla Finanza pubblica; per aver ottenuto il differimento di una rata di disavanzo, pari a 211 milioni, che – non va dimenticato – è il frutto di un accordo Stato-Regione (del 2021) che palazzo d’Orleans non ha mai onorato (qualche notizia su riforme e razionalizzazione della spesa?); per aver “strappato” 100 milioni nelle more di definire la norma costituzionale sul riconoscimento dell’insularità (che costerebbe ai siciliani 6,5 miliardi l’anno). Ma non c’è alcun accenno ai mille rimproveri della Corte dei Conti, che ha parificato con riserva l’ultimo rendiconto (del 2019), evidenziando “rilevanti incertezze sull’entità risultato d’amministrazione, specie in relazione alla congruità degli accantonamenti, delle partite vincolate e dei connessi residui attivi” (e con annessa bocciatura del Conto economico e dello Stato patrimoniale). Tanto meno alle impugnative piovute da Roma, che spesso e volentieri hanno azzannato le manovre: celebre il caso dell’articolo 36 della Finanziaria ’21, con cui è stata cassata la stabilizzazione di 4.500 precari Asu. E non ci sono riferimenti ai ritardi con cui, ogni anno, la Regione arriva all’approvazione dei bilanci: ma il record – cinque esercizi provvisori di fila – è lì che tiene banco.

Nella partita con la Corte dei Conti, proprio ieri, è arrivato l’ennesimo ko tecnico. La Regione aveva contestato la pronuncia con cui le Sezioni riunite della Corte dei Conti, a Roma, avevano accolto il ricorso della Procura generale (rappresentata dal pm Pino Zingale) avverso la decisione di parificazione del rendiconto regionale per l’esercizio finanziario 2019 che l’Ars, nel frattempo, aveva approvato con legge. Per questo motivo la Regione aveva chiesto alla Corte Costituzionale di dichiarare che non spettava allo Stato – e per esso alle Sezioni riunite della Corte dei conti in speciale composizione – esercitare la funzione giurisdizionale, arrivando a chiedere l’annullamento del dispositivo e della sentenza.

Ma si è vista rispondere picche: per la Consulta «le sfere di competenza della Regione e della Corte dei conti si presentano distinte e non confliggenti» (sentenza n. 72 del 2012). Infatti, l’una consiste nel controllo politico da parte dell’assemblea legislativa delle scelte finanziarie dell’esecutivo, illustrate nel rendiconto, l’altra nel controllo di legittimità/regolarità (la “validazione”) del risultato di amministrazione e cioè delle «risultanze contabili della gestione finanziaria e patrimoniale dell’ente». Quest’ultimo controllo, riservato al giudice contabile quale organo di garanzia della legalità nell’utilizzo delle risorse pubbliche, non può arrestarsi per il sopravvenire della legge regionale di approvazione del rendiconto generale, proprio in quanto strumentale ad assicurare il rispetto dei precetti costituzionali sull’equilibrio di bilancio”.

Nell’opuscolo di Musumeci non c’è traccia delle sconfitte di Armao. E non c’è traccia dei suoi fallimenti più sostanziali: dalla mancata riqualificazione della spesa, che sarebbe dovuta passare dal completamento delle liquidazioni degli enti regionali in dismissione (i cosiddetti carrozzoni) e dalla fusione di quelli in crisi (vedi Sicilia Digitale); dei blackout informatici, come accadde per il click day che avrebbe dovuto garantire il Bonus Sicilia alle imprese danneggiate dal lockdown (il sistema andò in tilt, e l’Arit, il dipartimento dell’innovazione tecnologica, non riuscì ad evitarlo); della gestione della vicenda relativa al censimento fantasma dei beni immobili, costato alle casse della Regione 110 milioni di euro; della Finanziaria di cartone del 2020, di cui molte misure per le imprese si sono perse per strada. Eccetera eccetera. Tante, troppe defaillance per un assessore che ha avuto la fortuna di esserci “comunque”. Senza la garanzia di un voto conquistato sul campo, ma sfruttando le potenti amicizie fra Roma e Arcore, che l’hanno elevato al grado di “predestinato”.