Cateno De Luca sostiene che la Meloni se ne sbarazzerà per consentire a Francesco Lollobrigida, il cognato (nonché nipote dell’attrice), di candidarsi alla presidenza della Regione Lazio, dove l’anno prossimo si vota. Ma il destino di Nello Musumeci, negli ultimi giorni, appare legato a un’altra impuntatura: quella di Letizia Moratti (proprio lei!) che reclama la candidatura a palazzo Lombardia. Dove siede, attualmente, il leghista Attilio Fontana. Lo stesso che Salvini e Berlusconi, basandosi sulla regola (non scritta) che “gli uscenti vanno ricandidati”, hanno già proclamato successore di se stesso. Mera curiosità: Moratti, ex sindaco di Milano, è l’assessore alla Salute del governo Fontana. E’ come se Razza – con le dovute accortezze sotto il profilo della storia personale – insidiasse Musumeci per sfilargli il posto. Un brutto affare.

La Sicilia è pur sempre la Sicilia, anche se a livello nazionale – in tutta franchezza – viene un po’ dopo le altre regioni. Così come il destino del governatore: che s’è appena tirato fuori da questo gioco sfiancante del logoramento (“I prossimi giorni saranno per me decisivi”, ha detto a margine di un incontro rassicurante con la Meloni), ma sa benissimo di essere legato alla partita nazionale che vede un centrodestra sempre più litigioso. E sempre meno disposto a scoprire le carte o ad accelerare. Meloni e Salvini sono ai ferri corti, e il sostegno offerto da Fratelli d’Italia alla Moratti, purché tattico, lo dimostra. E il caso vuole che sia stato La Russa, il colonnello che ritiene Musumeci intoccabile per non aver ricevuto mai un avviso di garanzia, a sfruculiare nelle questioni lombarde, confidando al Foglio che “la Moratti è una personalità di levatura notevolissima”, anche se ciò non implica un ‘no’ a Fontana, secondo il senatore di Ragalna. Che aggiunge: “Se una professionista straordinaria come la Moratti dà la propria disponibilità e la conferma anche quando la Lega sembra ratificare il proprio sostegno convinto al presidente attuale, allora si produce un fatto che impone una riflessione che andrà affrontata nel vertice dei leader del centrodestra”.

Il passaggio cruciale è il tavolo di Meloni con Salvini e Berlusconi. Richiesto dalla leader di FdI all’indomani delle Amministrative e non ancora convocato (è una questione di giorni, secondo Repubblica). Anche nei pezzi del centrodestra siciliano più refrattari alla conferma di Nello, prende quota l’idea che a decidere saranno i big. E che la questione siciliana sia profondamente connessa a quanto avviene nel Lazio e nella Lombardia. La storiella che “in Sicilia decidono i siciliani”, che piace tanto a Matteo Salvini, resta appunto una storiella. Anche se qualcuno tra i dirigenti locali di partito, in primis Gianfranco Micciché, spera di poter strappare un invito al summit romano. Tutto ciò che accade prima e al riparo dalla Capitale, rischia di diventare velleitario. A cominciare dal tavolo che s’è tenuto una decina di giorni fa a palazzo dei Normanni, a cui Fratelli d’Italia non ha partecipato. Così come i nomi di FI dati in pasto ai giornali (anche se Micciché conferma la richiesta di Berlusconi di un candidato forzista): prima quelli di Patrizia Monterosso e Barbara Cittadini, adesso quello della Prestigiacomo. Persino Renato Schifani s’è detto “lusingato” da una possibile nomination.

Ma anche all’interno della Lega, che sulla carta rappresenta l’ostacolo principale (assieme a Micciché), alla ri-discesa in campo di Musumeci, si registrano diversi orientamenti: quello ormai noto, e irredimibile, di Luca Sammartino, nemico giurato del governatore (con cui condivide il collegio elettorale); quello del segretario Nino Minardo, che pur essendo contrario alla riconferma di Musumeci, non vuole ridurre il dibattito a una “questione personale”; e l’ultimo – che non ha ancora comportato un vero squilibrio ma che comunque esiste – che fa riferimento agli ‘scontenti dell’ultim’ora’, a partire dal palermitano Gelarda, ex capogruppo in Consiglio comunale, che ha chiesto a Salvini di fare tabula rasa del Carroccio in Sicilia. Tenere una posizione univoca e forte con una tale frammentazione interna non dev’essere facile. E l’ex Ministro dell’Interno, che la settimana prossima sarà a Palermo per il processo Open Arms, è atteso alla prova del nove: intanto per ricompattare il gruppo, poi per esprimersi chiaramente su ‘chi decide dove’. E soprattutto ‘quando’.

In questa partita gioca un ruolo strano, e non ancora definito, Raffaele Lombardo. Contrario alla riconferma di Musumeci, avrebbe chiesto a Massimo Russo, il suo ex assessore alla Salute, di recarsi da Calenda, nella Capitale, per costruire una valida alternativa di centro (un po’ come quello che ha provato a fare Fabrizio Ferrandelli a Palermo). Che, forse, servirà ad avere più peso nelle trattative, ma non a scompaginare il tripolarismo – c’è sempre il solito De Luca – con cui la Sicilia si avvicina alla scadenza elettorale. Strano, però, che alcuni fra gli Autonomisti più accaniti, come il vicepresidente dell’Ars Roberto Di Mauro, seguano posizioni più audaci, quasi di rottura, rispetto all’esperienza di governo in corso. Mentre Lombardo si sia (parzialmente) convinto che non è questa la fase dei veti, semmai di costruire un’alternativa credibile.

Mentre nei partiti di centrodestra sventola il cartello dei lavori in corso, Fratelli d’Italia gioca con più mazzi di carte. Ma non ha fatto ancora i conti (fino in fondo) con la prudenza di molti dirigenti: che rifiutano di andare al muro contro muro, incaponendosi sulla scelta di un ‘esterno’ (Musumeci!) che alle Amministrative ha mostrato una palese inconsistenza. A Roma si gioca una sfida, a Palermo se ne gioca un’altra. La Moratti potrebbe essere solo un diversivo da cavalcare per rivendicare ciò che la Meloni pretende in linea di principio (“Ma non funzionerà”, messaggia un big di partito). A meno che FdI non pensi di sfilare agli alleati due candidati su tre, Lollobrigida rappresenta davvero un’insidia per Nello e, per quelli che – dal ‘cerchio magico’ in giù – non smettono di sostenere i prodigi del suo governo nemmeno di fronte a una sequela di fallimenti e di provocazioni, come le feste di Messina o le manovrine di Armao. L’unica ovvietà è che a decidere il suo destino non saranno i siciliani – altrimenti avrebbe già trovato il coraggio di candidarsi, anche da solo – ma i caminetti romani che il presidente tanto detesta.