La marcia verso la Porta d’Europa quest’anno sarà più povera. L’assenza dello Stato è una cosa insopportabile per Lampedusa, che oggi ricorda il quinto anniversario di una strage che segnò l’isola. Nella notte fra il 2 e 3 ottobre del 2013, un’imbarcazione libica colma di migranti naufragò a mezzo miglio dalla costa, provocando 368 morti. Una delle peggiori disfatte del mare. Tre anni fa il Parlamento istituì per il 3 ottobre la Giornata della Memoria e dell’Accoglienza. Ma quest’anno, dalle parti di Lampedusa, non è atteso alcun rappresentante istituzionale. Il Ministero dell’Istruzione, dopo aver pubblicato un bando lo scorso giugno, non ha valutato i lavori di centinaia di studenti che hanno partecipato al concorso. Che, quindi, rimarrà senza alcun vincitore. La tre giorni organizzata dal comitato Tre ottobre, sostenuta da pochi eletti – fra cui l’UNHCR (l’agenzia per i rifugiati dell’Onu), alcune ong e fondazioni – è monca.

Il clima in questi mesi è cambiato. E il processo migratorio è sotto la lente d’ingrandimento. Non in termini di solidarietà, ma di sgradito fastidio. Il sindaco di Lampedusa, Totò Martello, ne è uno dei principali testimoni: “C’è paura di impopolarità. Oggi a Lampedusa mancano l’Italia e l’Europa: è un giorno triste per la politica, ma di impegno per coloro i quali credono nel valore dell’accoglienza: tanti italiani, studenti, volontari e cittadini che in questi giorni partecipano con convinzione”. Dal 3 ottobre 2013 sembra passata una vita. Il sindaco storico di Lampedusa, Giusy Nicolini, si affacciava sul molo Favarolo per accogliere le motovedette della Guardia Costiera che giungevano cariche di cadaveri, dopo averli recuperati nei pressi dell’Isola dei Conigli. Uno strazio senza fine, una mattanza che non ci ha insegnato molto. Che ha insegnato poco persino all’Europa.

Una massa di disperati che – sulle carrette del mare guidate da scafisti senza scrupoli – si fiondavano sulle nostre coste alla ricerca dell’Eden perduto. Che a molti di loro ha consegnato solo morte. Lampedusa oggi è diversa. Arriva “solo” qualche barchino carico di tunisini, nulla a che vedere con i numeri dell’epoca. E il problema risiede altrove: a Roma, a Bruxelles, dove si fanno le barricate per impedire che qualcuno scappi dalla guerra e dalla fame.

Si festeggia il crollo degli sbarchi (-80% in un anno, dice il Ministro dell’Interno) e, più che per le vite umane, ci si indigna per le sentenze dei tribunali. La storia più “eclatante” degli ultimi giorni è il rilascio di 14 “scafisti per necessità” a Palermo. Il 25 maggio 2016 in Sicilia ci fu un’ondata di sbarchi. Arrivarono un migliaio di migranti a bordo di otto gommoni. Furono tratti in salvo e trasportati a Palermo per l’identificazione. I disperati individuarono e segnalarono gli scafisti, ma i loro legali oggi hanno invocato la scriminante dello “stato di necessità”. Il Tribunale gli ha dato ragione e, anziché proseguire i loro giorni in carcere, questi 14 “scafisti per necessità” – che si sarebbero messi alla guida delle imbarcazioni per fuggire dai lager libici – saranno liberi fra poche ore. La maggior parte di loro arriva da Gambia e Senegal. L’ipotesi che si ritrovino a piede libero ha fatto arrabbiare Salvini: “Amici, io posso anche combattere per bloccare barconi e scafisti – ha scritto su Facebook – ma anche la “giustizia” deve fare la sua parte”.