Ha appena finito le repliche di “Drowned or saved?” (“Annegati o salvati?”) di Geoffrey Williams al Tristan Bates Theater di Londra dove il suo Primo Levi – raccontato nell’ultimo giorno di vita, in quello sventurato 11 aprile 1987 del suicidio – ha raccolto grandi applausi. E, tra una recita e l’altra, ha trovato un “buco” per volare a Roma a prendere il Premio Crocitti che gli è stato assegnato per “Parole d’onore”, lo spettacolo scritto con Attilio Bolzoni che porta in giro dal 2009 e che ha recitato in tre lingue “in non so più quanti Paesi”. Ma Marco Gambino mica si ferma perché proprio nei giorni scorsi ha dato fiducia a una giovane cineasta veneziana, Alessandra Gonnella, e sarà il protagonista del suo cortometraggio dal tema molto curioso, un’intervista mancata di Oriana Fallaci. E se ha già iniziato a lavorare alla nuova versione inglese di “Parole d’onore”, a maggio sarà alla Sala Strehler del Biondo con “La colpa di Otello”, scritto e diretto da Roberto Cavosi, anche questa plurireplicata performance multilingue, nella sua Palermo. Già, perché Gambino ha natali, e ovviamente anche un bel pezzo di cuore, in queste contrade anche se vive e lavora a Londra da trent’anni, “quasi 31”.

E’ scappato da una laurea in legge (che comunque ha preso) e soprattutto da una madre dal protagonismo intrudente, troppo, dall’estro creativo totalizzante. Oggi ne parla – dopo quasi una vita di psicoanalisi sulla scena e cinque anni su un lettino – con serenità. “Annamaria era lei stessa una pièce teatrale, una donna che ha profondamente forgiato la sua vita e quella di chi le stava accanto con il suo spirito sempre vulcanico, ma mio padre, io e mio fratello ci sentivamo spesso inadeguati, fuori dal gioco nonostante lei ci coinvolgesse. Era una outsider ma ha sofferto perché non ha avuto la forza di affermarsi, di violare certe regole borghesi, anche quelle dell’esser moglie e madre, di fare del suo talento inventivo un mestiere e allora organizzava di continuo happening tirando dentro attori, musicisti, pittori, la vita per lei era come un palcoscenico in perenne attività, sipario sempre alzato, riflettori sempre accesi. Non so se fosse una forma di bipolarismo mai diagnosticato ma il più delle volte era impossibile starle dietro, tenere quel suo passo”.

Così Marco a 29 anni decide di seguire il suo, di passo, ma deve andare lontano e sceglie Londra come meta e il teatro come obiettivo. Ma se la meta è giusta, è sull’obiettivo che il destino o il caso decidono di virare. “Ci eravamo inventati il teatro da camera negli appartamenti che oggi è molto diffuso ma allora era una novità, portavamo roba seria, ben fatta: ‘Girotondo’ di Schnitzler, per esempio, fu un bel successo. Giravamo case di ricchi signori, guadagnavamo qualche soldo e mangiavamo ai sontuosi buffet offerti agli ospiti e agli attori nel dopo-spettacolo”. E’ proprio in una di queste serate che Marco conosce Gabriella Abbado, seconda moglie di Claudio, il direttore d’orchestra. Che lo introduce nel mondo dell’antiquariato d’arte. “Un universo che conoscevo solo di straforo attraverso mia madre che era appassionata, girava per mercatini e spendeva fortune comprando strani vasi o étagère di indubbia datazione”. Nel magico mondo degli oggetti e della mobilia d’antan Marco ci rimane per dieci anni, studia con serietà, frequenta i più grandi esperti inglesi, conosce uno storico dell’arte con il quale fa “ditta” e si trasforma in uno dei venditori di antiquariato più popolari del Regno Unito. “Uno metteva la sua grande competenza, io le mie doti d’attore per convincere i clienti”. Che erano musei pubblici (in testa il “Getty”) e collezionisti privati.

In questi dieci anni, tra una tela del Settecento e una porcellana, Marco continua a fare teatro occasionalmente. Finché in Inghilterra arriva Paolo Puppa, uno tra i più grandi esperti di Pirandello nel mondo. Lo coinvolge come attore in una miscellanea di pezzi dell’Agrigentino. Alla fine gli chiede: “Ma tu, da grande, che vuoi fare?”. E Marco, che è sulla soglia dei 40, gli (e si) risponde che sì, è il teatro che ha sempre avuto dentro. E ci si ributta, anima e corpo. Nuova svolta. “Io chiamo Londra la ‘città delle sterzate’, nel senso che è impossibile che qui non arrivino occasioni continue, per tutti, anche attraversi cambi repentini, bruschi: sei tu che devi saper tenere saldo il volante, se sai bene quale direzione seguire, quale obiettivo vuoi raggiungere. Ma la sterzata, stai certo, arriva”.

Da allora teatro, cinema, televisione. Sempre in forme e scelte che possono apparire strane. “Non mi piacciono i percorsi lineari, non mi piace il lavoro da ‘scritturato’ tout court, mi piace intervenire nella stesura di uno spettacolo, nel momento creativo e non essere solo lo strumento dell’esecuzione: questo Otello che porterò a Palermo, ad esempio, non è l’Otello scespiriano classico, è un uomo che dopo il femminicidio impazzisce, ascolta di continuo allucinato la voce di Jago. L’autore e regista Roberto Cavosi me lo ha cucito addosso ma lo abbiamo elaborato insieme. Mi piace smontare i personaggi, come fa un bambino con un giocattolo, scoprirne il meccanismo che li governa, scavare nella loro profondità alla ricerca magari di una patologia, di una piccola grande follia, di quella schizofrenia che spesso lambisce la nostra vita”.

Di suo, di totalmente suo, finora non ha scritto nulla, sta piuttosto elaborando e rielaborando – una tela di Penelope, fa capire – un testo su sua madre e comprenderete la difficoltà. “C’è bisogno di tempo, in fondo si scrive sempre di sé, è un processo dello spirito, dell’anima. Sento come la chiamata ma fino a che non sono sicuro d’esser pronto faccio finta di non esserne attratto, di non darle quasi retta”.

Adesso c’è questo “corto” per il quale lo ha cercato la giovane regista veneziana. E anche questo lavoro racconta una storia per vie traverse, “un po’ come piace a me – dice Gambino –. Ovvero l’intervista mancata di Oriana Fallaci a Marilyn Monroe quando la giornalista fu inviata da ‘L’Europeo’ in America per incontrare alcuni divi del cinema che poi descrisse nel libro ‘I sette peccati di Hollywood’. Marilyn fu l’unica con la quale la Fallaci non riuscì a parlare. Io sarò Jean Negulesco, il regista rumeno che lanciò Marilyn”.