Ora che la morte ha sigillato per sempre i suoi occhi indemoniati, ora che il cancro gli ha devastato il corpo e gli ha stroncato gli ultimi furori mafiosi, ora che le tre donne chiamate al capezzale dell’agonia – la sorella, la nipote e la figlia ribelle – si preparano ad accompagnarlo al cimitero senza nemmeno la benedizione di un prete, ora che la giustizia chiuderà per sempre un fascicolo di nefandezze rimasto aperto per oltre trent’anni, chi si ricorderà di Matteo Messina Denaro, killer e boss di Cosa nostra, accusato di avere fiancheggiato, nella terribile stagione delle stragi, i sanguinari corleonesi di Totò Riina?

Parce sepulto, verrebbe da dire. Ma non sarà facile per nessuno stendere un velo di misericordia sulle sue imprese criminali. Non lo permetteranno i familiari dei tanti servitori dello stato, da Giovanni Falcone a Paolo Borsellino, stritolati dal tritolo mafioso. Non lo permetteranno gli uomini delle forze dell’ordine impegnati, da quei maledetti anni Novanta, a dare la caccia a Riina, a Giovanni Brusca, a Bernardo Provenzano e a tutti i padrini e i picciotti che avevano seminato morte e terrore lungo le strade di Sicilia; e poi a Roma, a Milano, fino alla Firenze dei Georgofili. Una caccia lunga, snervante e ossessiva che si è protratta fino al 16 gennaio di quest’anno quando, dopo un’indagine minuziosa e paziente, i carabinieri del Ros hanno sorpreso Matteo Messina Denaro, colpito da un tumore al colon, nello spiazzo della clinica Maddalena di Palermo, dove si stava recando per un ciclo di chemioterapia, e hanno scritto la parola fine sotto una latitanza lunghissima e a tratti beffarda, vissuta tra la sua Castelvetrano e Campobello di Mazara, tra coperture e complicità paesane, tra ricchezze e amori proibiti, tra viaggi all’estero e affari sporchi, tra mitomanie e azzardi inimmaginabili. “Se vuoi nascondere un albero piantalo nel mezzo di una foresta”, diceva.

La morte lo ha sottratto a una galera durata solo nove mesi. Rinchiuso nel carcere di massima sicurezza dell’Aquila, ha fatto giusto in tempo a tracciare un ritratto di se stesso perfettamente in linea con la sua storia di sangue e di violenza. Ha confutato, con la spocchia ringhiosa del leone in gabbia, la propria sconfitta: “Sapevo che c’erano le telecamere. Mi avete preso perché ero già ammalato, altrimenti sarei rimasto latitante per altri vent’anni”. Ha rifiutato, con protervia, l’ipotesi di una collaborazione con i magistrati: “Che sono un capo della mafia l’ho letto sui giornali”. E ha tenuto solo a precisare di non avere messo mano in un delitto infame e raccapricciante come quello del piccolo Giuseppe Di Matteo, 13 anni, sequestrato e sciolto nell’acido dai corleonesi con l’unico scopo di terrorizzare il padre, un gregario di San Giuseppe Jato, che si era appena pentito e stava per raccontare ai giudici alcuni segreti della cosca.

Voleva morire da boss: spietato sì, ma non con i bambini, con gli innocenti, con gli indifesi. Non aveva altri rimorsi. Non lo affliggevano i ricordi delle stragi, dei cadaveri straziati dagli attentati, dei morti ammazzati, incaprettati o bruciati nelle esplosioni. Niente: tutta acqua passata. Non rinunciava nemmeno ai suoi deliri di onnipotenza e, nei pizzini, se la prendeva addirittura con la Chiesa: “Rifiuto ogni celebrazione religiosa perché fatta di uomini immondi che vivono nell’odio e nel peccato. Non sono coloro che si proclamano i soldati di Dio a potere decidere e giustiziare il mio corpo esanime. Non saranno questi a rifiutare le mie esequie”, scriveva disegnando già la scenografia del suo funerale senza un Requiem né una Messa di suffragio. “Rifiuto tutto ciò perché ritengo che il mio rapporto con la fede è puro, spirituale e autentico, non contaminato e politicizzato. Dio sarà la mia giustizia”. Un Dio con il quale credeva di avere stretto un’alleanza e dal quale credeva di avere già ottenuto ogni perdono e ogni assoluzione: “Lui non mi ha scomunicato perché Dio”.

Scempiaggini, arroganze, bestemmie in libertà. Che non ricorderà nessuno. Sulla morte, invece, si snoderà quasi certamente – gli indizi non mancano – la danza fescennina delle congetture e si elencheranno, con acribia e compiacimento, i misteri reali, probabili o presunti che Matteo Messina Denaro porterà con se nella tomba. Misteri e segreti che andranno puntualmente a ingrossare il grande libro delle ipotesi e dei sospetti coltivati in maniera intensiva soprattutto da quell’antimafia della chiacchiera – della fuffa, si stava per dire – che subito dopo la cattura si è affrettata a sostenere che il boss, irreversibilmente malato e quindi fuori gioco, si era “consegnato” spontaneamente ai carabinieri del Ros in cambio delle necessarie coperture per i registi e i mandanti occulti delle stragi. Una impostura costruita ad arte e dentro la quale, di volta in volta, troneggiano le trame oscure e i servizi segreti deviati, i patti inconfessabili e i complotti orditi da menti raffinatissime, le contiguità con la politica e l’immortale “terzo livello” che vede seduti insieme, attorno all’immancabile tavolo ovale, i boss mafiosi e i rappresentanti dello Stato. Dello Stato-mafia, va da sé.

La morte di Matteo Messina Denaro, diciamolo, è destinata a dilatare ulteriormente gli spazi del circo mediatico giudiziario. I suoi silenzi, che già hanno aperto la stura ai teoremi più strampalati, daranno altro fiato agli eroi dei talk-show, ai cosiddetti giornalisti d’inchiesta e ai fiancheggiatori, come il gelataio di Omegna, abilissimi nell’assegnare qualche punto di share al programma di Massimo Giletti e nel caldeggiare all’un tempo gli interessi dei fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, murati vivi al 41 bis perché responsabili, con Totò Riina e tutta la “cupola”, delle stragi mafiose del 1992 e delle bombe del 1993. Si riaprirà la giostra dei duri e dei puri, dei magistrati coraggiosi e dei pataccari, come Massimuccio Ciancimino, che per dieci anni e passa hanno divertito lettori e telespettatori con un processone – quello sulla Trattativa – che ha tenuto appesi all’albero della gogna una decina di imputati eccellenti, tra i quali tre alti ufficiali del Ros, liberati solo pochi mesi fa da una sentenza della Corte d’Appello e dal giudizio definitivo della Cassazione. E si rifaranno vivi, potete star certi, i pentiti di pregiata caratura, come Giovanni Brusca, che hanno saputo accompagnare le patacche di Ciancimino dosando, con furbizia e destrezza, i tempi delle rivelazioni e le modulazioni processuali del battere e levare, del dire e del non dire.

Non c’è dubbio: le confessioni di Matteo Messina Denaro avrebbero potuto aprire squarci di verità e avrebbero anche potuto dissipare le scemenze che hanno accompagnato il suo arresto e che non avevano altro scopo se non quello di sminuire il lavoro investigativo dei Ros, portato avanti in costante raccordo con il procuratore di Palermo, Maurizio De Lucia e con l’aggiunto Paolo Guido. Ma i due magistrati non sono cascati nella trappola. Anzi. Hanno rivendicato, con forza, il merito di un’operazione d’intelligence, precisa e puntuale in ogni dettaglio; hanno rispedito ai mittenti illazioni e insinuazioni: “da dieci anni non hanno più fatto un’indagine e ora vogliono insegnare a noi come si cattura un latitante”; e hanno affermato ancora una volta un principio sacrosanto e incontestabile: che, malgré tout, lo Stato continua a vincere e la mafia continua a perdere.

Altro che Stato complice. Altro che Stato-mafia. Certo, il boss di Castelvetrano poteva essere catturato nel 1993 dagli stessi ufficiali del Ros che in quell’anno, quando era ancora caldo il sangue di Falcone e Borsellino, hanno bloccato e ammanettato Totò Riina alla Circonvallazione di Palermo. Oppure nel 2006, anno in cui gli uomini del vicequestore Renato Cortese hanno sorpreso Bernardo Provenzano, il numero due dei corleonesi, mentre mangiava ricotta e cicoria in una masseria di contrada Cavalli, a cinquanta chilometri da Palermo. Ma le cose, purtroppo, sono andate diversamente. Non sempre la macchina dello Stato, e in particolare quella della giustizia, ha mantenuto la stessa efficienza e la stessa velocità. Ci sono stati ritardi, incomprensioni, protagonismi, diversità di visione, contrasti nelle strategie da adottare. Persino rivalità. Aperte, dichiarate. Anche tra i magistrati delle procure. Spesso divisi tra chi cercava le prove e chi credeva che bastasse un sospetto o una delazione per gettare un cittadino in galera; tra chi credeva nello stato di diritto e chi utilizzava la legge per mascariare nemici e rivali; tra chi credeva nella presunzione d’innocenza e chi utilizzava le inchieste per conquistare un titolo di prima pagina, per andare in televisione, per scrivere libri, per raccogliere applausi, per indossare l’aureola della santità e poi, magari, scendere in politica e agguantare un seggio in Parlamento o addirittura un ministero.

Chi potrà mai dirlo? Forse, senza quelle distrazioni, senza i veleni, le faide e i giochi di potere che hanno inquinato per tutti questi anni i palazzi di giustizia, la latitanza di Matteo Messina Denaro sarebbe stata meno lunga e meno scandalosa. Chissà.