Di Pippo il leggendario si conosce tutto o quasi e adesso che nelle librerie c’è la prima biografia “autorizzata” – scritta a quattro mani con Paolo Conti del “Corriere della Sera”, intitolata “Ecco a voi Pippo Baudo – Una storia italiana” (edizioni Solferino, 288 pagine, 18 euro) si potrà agevolmente eliminare quel “quasi”. Di Baudo Giuseppe da Militello Val di Catania si saprà tutto. E, se possibile, anche di più. Dell’uomo che si è fatto tv (82 primavere anagrafiche e 6 decenni, il prossimo anno, di servizio permanente effettivo sul piccolo schermo) le agiografie recitano già di una vocazione precocissima, una “chiamata” a soli tre anni, faceva il figlio di Santa Rita in uno spettacolo dell’oratorio, che frequentò palcoscenici dilettantistici ai tempi dell’università, che al primo provino in Rai i registi Antonello Falqui e Lino Procacci lo classificarono sulla scheda come “adatto per programmi minori”, che deve improvvisa notorietà a Rin-Tin-Tin perché un tecnico non trovò la “pizza” dell’episodio del telefilm che doveva andare in onda e, nel marasma, gli dissero di trasmettere la prima cosa che si trovava sotto mano ed era il numero zero di “Settevoci” che fu subito il successo che fu. Materia ormai da corso monografico negli atenei.

Di Pippo sono notori professionalità, precisione, puntiglio. Un anno a Sanremo (“ricordati che ne ho fatti più di te”, lo pungolo ricordandogli i suoi 13 festival contro i miei oltre 20, e lui “da inviato è più facile” ma mica tanto), arrivò un corpo di ballo sovietico, pre-perestroika e pre-caduta Muro, delle bluebellone molto in carne con un piccolo difetto: qualcuna aveva le calze di scena smagliate. Si poteva anche pensare che la telecamera non indugiasse su quei dettagli ma Pippo, dopo aver civilmente protestato con l’impresario, mise le mani in tasca, cacciò fuori due o tre banconote e chiese a un funzionario Rai di battere le mercerie della Riviera per comprare calze nuove. Serata salva e ragazze in brodo di giuggiole.

Sanremo è stato sempre nel suo dna, come il sabato sera al Delle Vittorie. Il festival glielo avevano dato nel ’68 che l’anno prima ci si era ammazzato Tenco. Figurarsi. Lui era già popolare ma non famoso e potente come poi fu. Rischiò, gli andò alla grande. Anche con i brani da portare in gara è stato maniacale: aggiustiamo questo, correggiamo quello, e se qui salissi di un’ottava?, maestro, tira più a lungo questo finale con gli archi. Per mesi, più che alle case discografiche, ha bussato direttamente a quelle dei cantanti: hai qualcosa per il festival? impossibile, qualcosa dovrai pur avere, fai sentire. Li prendeva per amicizia e per sfinimento. Per dire. L’anno che portò Ron con Tosca – 1996, “Vorrei incontrarti fra cent’anni” che poi vinse – andò a Garlasco (Pavia) a casa Cellamare. Ron si mise al piano e intonò la canzone. Però c’era un problema. Non aveva l’inciso. E che problema è? Pippo, che per Sanremo si trasformava in SuperPippo, si mise al piano accanto a lui, due o tre accordi, così no, così va un po’ meglio… passò un pomeriggio intero e l’inciso saltò fuori (“oh questo amore/più ci consuma/più ci avvicina…”). E quando si andava un mese prima del festivalone ai preascolti dei brani del festival te lo trovavi sempre dietro, ubiquo, “hai sentito? qui c’è un passaggio alla Lloyd Webber… adesso arrivano i fiati, vedrai come fanno maestosa la melodia… e il filato? che ne dici di questo filato? che voce…”. Fu inviso ai giornalisti quando inventò il Dopofestival: tanto, se in tipografia invece di chiudere all’una chiudono alle due, che succede?

Pippo ha risolto sempre tutto anche nella vita privata con mestiere consumato e una certa eleganza. Due figli (oltre a Tiziana, “pierre” di successo nata dal primo matrimonio, c’è un maschio cresciuto in Australia, arrivato da una relazione clandestina, come si diceva un tempo, e riconosciuto tardivamente, alla morte del padre putativo), vari nipoti e perfino un pronipote. Grande passione per le donne, sempre. Da buon siciliano. Gelosia q.b. nella ricetta dell’amore tradizionale. Quasi tutte del suo ambiente. Attrici, showgirl, cantanti liriche. Rari gli attriti di fine rapporto, qualche polemica solo con Katia per la quale però prendeva a calci in culo i loggionisti fischiatori della Scala. Quando morì Alida Chelli lo chiamai dal giornale per un ricordo, erano stati sette anni insieme. Era distrutto, la voce rotta dal pianto, aveva fatto da vice-padre a Simone, figlio di Alida e Walter Chiari negli anni complicati dell’adolescenza. Non si è mai sostituito a Walter, anzi ha fatto sì che Simone si riavvicinasse sempre più al padre (e lui glielo riconosce ancora). Il matrimonio con la Ricciarelli valse lo stress di cento matrimoni, evento supermediatico in tempi non ancora social, s’era già capito mesi prima da quel primo sguardo galeotto al Petruzzelli di Bari, ovviamente sotto la lucina rossa della telecamera.

Quando Pippo non la vede, quella lucina, è come se si sentisse sperso, nei pochi momenti in cui non s’è accesa ha molto sofferto ma ha anteposto al sacrificio la sua dignità di uomo e d’artista. Il primo con cui litigò fu Bernabei, il più potente direttore generale che la Rai abbia conosciuto, che spostò “Settevoci” dal tabernacolo confortevole e sicuro della domenica pomeriggio al mezzogiorno del dì di festa. L’ancor giovine Pippo protestò, l’altro non sentì ragioni: l’intrattenimento canterino, la gara con l’applausometro dovevano far da traino al nascituro telegiornale delle 13,30. Molti anni dopo ci fu Enrico Manca presidente e il caso del “nazional-popolare”, un 6 gennaio memorabile, lasciò la Rai, si fece sedurre dal canto di sirena del Cavalier Berlusconi (che in quegli anni ’80 elargiva miliardi ai vip di viale Mazzini che traslocavano al Palatino o a Cologno) ma Pippo senza il cavallo morente di Francesco Messina non sa stare. Potesse, la notte se lo porterebbe anche a letto. Lasciò il Cavaliere, gli regalò un palazzo come penale.

Ha saputo ricominciare, ingoiando anche qualche rospo, in ri-partenza da Raitre con quiz e piccoli varietà di divulgazione, roba allegra per carità, niente più lustrini e orchestre ma nemmeno sbadigli da Telescuola. Lento pede, fino a tornare super, SuperPippo. A condurre Sanremo, show del sabato, domeniche in, a scoprire talenti (un suo pallino) molti dei quali futuri comici di successo, ammirate showgirl, astri interplanetari delle sette note.
Da qualche tempo s’è lasciato incanutire i capelli abbandonando la vernice che lucidava di nero il sapiente trapianto, pare avere acquisito tempi e modi di un’autorevole saggezza, fa spesso l’ospite d’onore autocelebrandosi non troppo suo malgrado. Ma tornerà il 20 e 21 dicembre al suo antico amore festivalero con “Sanremo Giovani”, su Raiuno, a far sfidare le nuove leve agognanti un microfono sul palcoscenico dell’Ariston a febbraio. Non ha esitato un attimo a dire di sì al direttore artistico Claudio Baglioni. Che gli ha affiancato Rovazzi, l’idolo multimediale dei giovanissimi. Che l’altra sera, da Fabio Fazio, in diretta tv ha regalato a Baudo un account Instagram: in 48 ore quasi 50 mila followers. Televisiva o web, non c’è niente da fare: Pippo è la rete, dal tubo catodico alla fibra ottica.