“Lo introduttore ha per nimici tutti quelli che degli ordini vecchi fanno bene, et ha tepidi defensori tutti quelli che delli ordini nuovi farebbano bene. La quale tepidezza nasce, parte per paura delli avversarii, che hanno le leggi dal canto loro, parte dalla incredulità delli uomini; li quali non credano in verità le cose nuove, se non ne veggono nata una ferma esperienza”. Niccolò Machiavelli, Il Principe.

Vlad III di Valacchia, meglio noto come Drăculea (in rumeno figlio del diavolo), piangeva lacrime di sangue. Non è l’incipit di un nuovo racconto dell’orrore, ennesima variante del mito, ma è il risultato di una ricerca serissima condotta dalla più che seria Università di Catania, dal preclaro Politecnico di Milano insieme alla società israeliana Spechtrophon, con la collaborazione dell’archivio di Sibiu in Romania. La ricerca è stata pubblicata sull’autorevole rivista internazionale Analytical Chemistry. Dunque un lavoro scientifico condotto sulle lettere scritte nel 1457 e nel 1475 dall’eroe della lotta contro i turchi. Con una tecnica non invasiva sono state estratte proteine, peptidi e piccole molecole. I risultati ottenuti suggeriscono che, in accordo ad alcune storie, il Conte Vlad III soffrisse, almeno negli ultimi anni della sua vita, di una rara patologia oculare oggi nota come emolacria, una condizione che porta una persona a produrre lacrime parzialmente composte da sangue. A così strabilianti risultati può arrivare il matrimonio tra scienza pura e applicata, grazie al meticciato tra discipline che sembrano tanto lontane. Un altro miracolo della Silicon Valley sotto il vulcano, detta anche Etna Valley? Piano con il sarcasmo, c’è del metodo, e come, dietro quell’apparente bizzarria. Solo che fino ad oggi resta confinato in progetti singoli e singolari, nei laboratori, nelle biblioteche, nei seminari, nelle nicchie sia pur d’eccellenza. Gli innovatori ci sono, manca l’innovazione ed è anche colpa della difficoltà di comunicare; è vero in generale, nel Mezzogiorno è ancora peggio, spiega Biagio Semilia che ha deciso di dedicarsi proprio a favorire quel che possiamo chiamare un dialogo tecnologico, partendo dalla Sicilia. Ma non arriviamo subito alla conclusione.

L’Italia ha recuperato due posizioni, tuttavia resta 26esima dopo Malta e prima di Cipro nel Global Innovation Index 2023 di Wipo, la World Intellectual Property Organization, che prende in esame 132 Paesi. In testa alla classica si piazzano la Svizzera, poi la Svezia, gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, Singapore, Finlandia, Olanda, Germania, Danimarca, Corea del Sud, Francia. Da Uber alla carne sintetica passando per ChatGPT, tra “tepidezza”, incredulità e paura, gli italiani si tagliano fuori, e spesso per decreto, dalle “cose nuove”. Non che manchino gli inventori, nei brevetti depositati, l’Italia è undicesima al mondo con il 2,5%, quasi come la Svezia dove, invece, ricerca e impresa vanno a braccetto. Grandi speranze sono state concentrate sulle start-up, nemmeno loro però hanno mantenuto le promesse e anziché diventare unicorni sono rimaste libellule.

Presi dall’ebbrezza del dopo pandemia, molti hanno visto nella brulicante corsa a inventarsi un’impresa innovativa, originale, immaginifica, i segni di un nuovo miracolo; e adesso restano delusi. Quest’anno che muore ci ha riservato un mesto ritorno alla normalità. L’Italia riprende a crescere meno di un punto percentuale come è successo in media nel decennio precedente. La Nazione perde la maiuscola e il boom del 2022 con quella molla scattata con una forza e una prontezza inattese, sarà ricordato dagli storici come un fuoco fatuo. Tanti, troppi i segnali, gli indicatori, i numeri che lo dimostrano, ma questo eterno ritorno del sempre uguale appare ancor più preoccupante nel coraggioso nuovo mondo delle start-up, un mondo ancora troppo piccolo, che torna a restringersi. Il 2022 aveva visto un balzo imprevisto: erano stati raccolti 2 miliardi e 320 miliardi di euro per finanziare nuove iniziative, tre volte più che nel 2019. Il primo bilancio del 2023 vede una caduta del 53% a un miliardo e 130 milioni. Anche in buona parte dei paesi europei le cose non sono andate bene, il rallentamento della congiuntura non ha risparmiato nemmeno gli incubatori delle nuove imprese, ma l’Italia resta enormemente indietro e rischia di allontanarsi ancora di più. Il Regno Unito è a 12,5 miliardi di euro, la Francia a dieci, la Germania sei, l’Irlanda due miliardi. Start-up che hanno raggiunto una valutazione di un miliardo di euro e si sono meritate la medaglia di unicorni, si contano sulle dita di una mano. Dopo il successo di Yoox e Depop (che dal 2012 si è delocalizzata a Londra) quest’anno se ne sono viste solo due: la filiale della irlandese Scalapay e la Satispay di Cuneo, entrambe offrono servizi di pagamento. Le nuove iniziative italiane si concentrano per lo più nel terziario, nel turismo, nel food, nella logistica, una minoranza nell’industria ad alta tecnologia. Un mix troppo tradizionale per chi vuol praticare la difficile arte schumpeteriana dell’innovazione creatrice.

La Lombardia ospita il 39% delle start-up, seguita a grande distanza da Piemonte con il 12%, Toscana 7,9, Emilia 7,3, molto indietro il Veneto con il 3% e sorprende la sua lontananza dal nuovo triangolo industriale le cui punte sono a Milano, Torino e Bologna. Nella maggior parte delle regioni la presenza delle start-up è irrilevante, anche nelle aree dove i distretti l’hanno fatta da padroni negli ultimi trent’anni. Purtroppo, al di fuori di Milano, Bologna e qualche altra area dinamica, essi hanno una struttura che non è avanzata, centrata su pochi investimenti in innovazione e capitale umano. “È quindi un modello produttivo che al posto di godere i vantaggi della globalizzazione ne soffre gli effetti. Così anche per l’impatto delle nuove tecnologie” sostiene l’economista Enrico Moretti, professore di economia a Berkeley in California.

Nella classifica la Sicilia è indietro, con appena l’1,8% del totale. Eppure quante aspettative erano state suscitate negli anni scorsi. “Con Milano c’è un abisso, là è tutto un altro mondo”, riconosce Biagio Semilia che ha deciso di rimboccarsi le maniche per risalire la china. La Digitrend, azienda che si occupa di pubblicità e servizi all’editoria di cui Semilia è amministratore delegato, ha organizzato, in collaborazione con Edi Tamajo, assessore regionale alle Attività produttive, un “premio innovazione”. Un test per la Sicilia e il Mezzogiorno. “Sono arrivate oltre 200 candidature – spiega Semilia – alcune molto interessanti. In ogni caso ci siamo resi conto di quanto sia vivo questo mondo nella nostra terra e abbiamo toccato con mano la voglia di fare, di mettersi in gioco, di scommettere sul futuro”. Il portale Innovation island si pone come punto di riferimento per questo mondo: la sua ambizione è “creare una community, raccontare le storie di innovazione, valorizzare i vari ecosistemi che non riescono ancora a sprigionare tutto il loro potenziale”. Dunque, esiste una realtà ancora annidata nei cespugli direbbe Giuseppe De Rita, bisogna farla uscire dai rovi. Ram Mudambi, Professor of Strategy presso la Fox School of Business and Management della Temple University di Philadelphia, nel corso di una lezione tenuta proprio all’Università di Palermo, ha gettato il sasso nello stagno: “Servono i semi, ma serve anche il terreno, un terreno fertile. Se si gettano semi in un ambiente istituzionale che non è accogliente, questi moriranno e non crescerà nulla”.

Dobbiamo dar ragione al “segretario fiorentino”, gli italiani non credono nelle cose nuove e preferiscono l’usato sicuro? Le start-up in Italia sono state battezzate soltanto nel 2012, officiante Mario Monti. La legge conosciuta come decreto crescita le distingue da una qualsiasi nuova impresa perché deve offrire un prodotto o un servizio ad alto valore tecnologico fortemente innovativo inteso come “un investimento rilevante in ricerca e sviluppo (almeno il 15% del rapporto tra fatturato e costi annui), forza lavoro costituita almeno per 1/3 da dottorandi o 2/3 dei soci o collaboratori con laurea magistrale, o ancora nel possesso di un prodotto brevettato”. Deve partire da zero e l’embrione una volta sviluppato cambia natura. Nel mondo anglo-americano ci sono definizioni più ampie: è una organizzazione temporanea (cinque anni in genere) con un modello di business replicabile e scalabile, deve crescere velocemente offrendo prodotti e servizi in condizioni di estrema incertezza. Inutile oltre che contraddittorio giustificare il ritardo italiano con l’instabilità economica, politica o istituzionale, in fondo l’incertezza è il brodo di coltura della start-up che, una volta decollata, avvia la propria metamorfosi. Il bruco talvolta si fa gigante come Twitter o Airbnb, può essere ingoiato da potenti predatori, può anche diventare il fattore mutante di nuove creature. Ecco perché le start-up sono un eccellente barometro del progresso economico e tecnologico. Ma a certe condizioni: in apparenza l’innovatore è un lupo solitario, invece ha bisogno di entrare in una rete di relazioni plurime.

Startup Itala ha stilato una classifica delle prime dieci e il 21 dicembre ha nominato la start-up dell’anno: si tratta di Orbit fondata nel 2011, da Como nello spazio per “creare una connessione tra Marte, una fascia di asteroidi, la Luna e la Terra”, spiega il fondatore Luca Rossettini. Le applicazioni strettamente industriali in realtà restano in netta minoranza, questo è vero ovunque, dalla Lombardia alla Sicilia. In generale, prevalgono le “innovazioni incrementali” basate sulla spinta che viene dalla domanda rispetto a quelle radicali dove prevale la ricerca di un salto tecnologico. C’è bisogno, quindi, di una spinta energica più che di una spinta gentile, e deve cominciare dalla dotazione di capitale, non dagli incentivi pubblici, altrimenti si creano zombie invece di unicorni. Joseph Schumpeter considerava il sistema creditizio “l’eforo dell’economia dello scambio”. Nella Sparta del VI secolo a.C. 5 efori costituivano la magistratura regolare caratterizzata da attribuzioni censorio-poliziesche. Nel nostro caso l’eforo parla inglese e si chiama venture capital. Nel 2022 che pure è stato un anno record, è stato investito appena un miliardo e 800 milioni di euro e l’Italia si piazza appena al dodicesimo posto in Europa. Prima viene la Francia, tallonata dalla Gran Bretagna. Macron ha annunciato di voler re-industrializzare “l’Esagono” attraverso le start-up: oggi sono 21mila con 650mila impiegati, 577 investitori venture capital e circa 5.500 che intervengono direttamente nelle imprese. Parigi rappresenta il più grande ecosistema del paese con un valore economico pari a 90 miliardi di euro. In Italia fino a dieci anni fa questo tipo di finanziamento praticamente non esisteva, c’era solo Elserino Piol: una volta lasciata l’Olivetti è lui che ha fatto da ”angelo” lanciando Tiscali a fine anni ’90 e dieci anni fa Yoox (vendite online di moda prêt-à-porter). Oggi si contano 150 iscritti all’Aifi, l’associazione che comprende anche i fondi di capitale privato. “Siamo un mercato sottofinanziato e ciò si riflette anche sulle startup. Le risorse non affluiscono ancora, ma c’è spazio per crescere»,  spiega Gianluca Dettori uno dei pionieri con il suo Primo Ventures.

Le onnivore banche e lo smilzo venture capital non assicurano un flusso di denaro sufficiente. Anche le start-up dunque debbono guardare a piazza degli Affari. Secondo Barbara Lunghi di Borsa italiana, “la quotazione non è solo un modo per raccogliere liquidità, ma anche un’occasione di visibilità, una vetrina per attrarre talenti e l’interesse di aziende in cerca di acquisizioni”. Il rischio è di ampliare anche così la forbice tra il triangolo del nord e il resto del paese. La siciliana Develhope che avvia giovani al lavoro, insieme ad Amazon ha dato vita a due incubatori virtuali tra Sicilia e Campania per stimolare la nascita e la crescita di nuove aziende nella logistica e nella catena di fornitura. Nuove speranze fioriscono attorno alla STMicroelectronics che ha deciso di espandersi a Catania grazie all’aumento della domanda di chips nel settore automobilistico, agli incentivi pubblici europei, alla buona salute della joint venture italo-francese. Ma oggi Apple resta il suo cliente principale il che la rende vulnerabile ai diktat di Pechino che sta incentivando, anzi imponendo l’uso di smartphone e tablet nazionali. Non si può sperare solo su un Gulliver, così come non basta il pullulare di lillipuziani, occorre un tessuto vasto e solido, un Mittelstand dell’innovazione che l’Italia da sola non è in grado di garantire anche perché la sua trama produttiva è composta di aziende troppo piccole in settori tradizionali. Dunque, è necessario guardare all’estero, all’Irlanda per la sua abilità nell’attrarre investimenti multinazionali, alla Francia per come si è lanciata nella dimensione digitale.

Giovanni Agnelli andava da Henry Ford ad imparare come si fabbrica l’auto per le masse, Adriano Olivetti andava alla Ibm per capire il potenziale delle macchine calcolatrici. Purtroppo Carlo De Benedetti non è andato a Cupertino quando Piol gli aveva consigliato di sostenere Steve Jobs. Quanto a Cesare Romiti, era convinto che Deng Xiaoping avesse bisogno di furgoncini per sostenere le sue modernizzazioni, anziché di comode berline, facendosi soffiare il grande affare dalla Volkswagen. Oggi con il tanto parlare di rimpatrio delle imprese, l’Italia non deve commettere gli stessi errori. E’ interessante, dunque, l’esperimento di Innovit che sta per Italian Innovation and culture hub: collocato nell’area di San Francisco è il polo italiano promosso dal ministero degli Affari Esteri. “Un avamposto” lo chiama il direttore Alberto Acito. Ma una Innovit non fa primavera. Bisogna attrarre molti capitali, idee, scienziati, imprenditori per uscire dalla palude tecnologica. Quanto agli avamposti, attenti a non diventare come la Fortezza Bastiani nel Deserto dei Tartari.