I ballottaggi di domenica e lunedì portano al centrodestra il secondo capoluogo di provincia dopo Enna. E se nel cuore della Sicilia era arrivata un’affermazione netta, in surplace, grazie al contributo importante dei renziani, la seconda ondata rappresenta, invece, una ineguagliabile prova di forza. Perché ad Agrigento il centrodestra ha voluto testarsi, correndo anche un bel rischio. Al primo turno, infatti, si era presentata allo striscione di partenza con tre candidati diversi: uno, Franco Micciché, sostenuto da cinque liste civiche e dal movimento di Raffaele Lombardo; un altro, Marco Zambuto, appoggiato da Musumeci e Forza Italia; il terzo, Daniela Catalano, sotto l’egida di Lega e Fratelli d’Italia. Con qualcuno, tipo l’Udc e il centrista Pullara, finiti sul carro di Firetto. I mezzi per perdere sembravano esserci tutti. Ma alla fine si è vinto. Sono stati necessari un ballottaggio e pochi giorni di riflessione, che hanno rimesso tutti i protagonisti – da Candiani a Musumeci, passando per Micciché (Gianfranco, questa volta) – sulla stessa barca, a voler sancire che “non ce n’è per nessuno”. Mascherando – una volta per tutte? – gli attacchi di invidia, gelosia e campanilismo dettati dalla foga elettorale. E da vicende che a Palermo prendono una piega, e nei territori la sconfessano.

Al netto della prova di forza di Agrigento, significativa quanto e più dell’affermazione di Marsala (lì mancava all’appello la Lega) e Barcellona Pozzo di Gotto, l’unica defaillance del centrodestra arriva da Carini, dove Totò Sgroi non riesce a mobilitare i delusi e gli indecisi (ha votato appena il 32%), e scavalcare l’uscente Giovì Monteleone. Un altro per il quale il Pd s’è speso molto, assieme ai Cento Passi di Claudio Fava, durante la campagna elettorale. Supplementari compresi. Il bottino del centrosinistra, comunque, piange parecchio. Ad Augusta, per esempio, non è bastato riproporre il “civico” Pippo Gulino, più volte sindaco, per frenare l’ascesa di Pippo Di Mare, anch’egli lontano dai partiti. Facendo il paio con la prestazione di un paio di settimane fa – tragica a Marsala, dove dall’avere un sindaco si è passati a non avere nemmeno un consigliere – per il Pd è una prestazione da 3. Inteso come voto in pagella.

Più in generale, il verdetto era stato chiaro al primo turno e non cambia l’esito il ballottaggio: il centrodestra a guida Musumeci-Forza Italia, nonostante le forti diatribe interne, è ancora la squadra da battere. Ma il respiro lungo di questa coalizione è garantito dalle anime “centriste”, spesso “autonomiste”, che sui territori si affermano in maniera netta: la vittoria di Franco Micciché ad Agrigento è la diretta conseguenza di questo sentiment. I siciliani, nei momenti di grande smarrimento – questo della pandemia lo è a tutti gli effetti – amano aggrapparsi ai partiti consolidati e per certi versi tradizionali. Lo sono gli autonomisti di Raffaele Lombardo, un tempo Mpa.

Mentre non bucano lo schermo i sovranisti, che fino a qualche mese fa sembravano poter invadere l’Isola con la fanteria pesante: la Lega è stata decimata al primo turno – ne è seguito uno scambio d’accuse fra il segretario Stefano Candiani e alcuni “miracolati” del partito, come l’eurodeputata Francesca Donato -, ma anche Fratelli d’Italia non ha collezionato a faville. Un ottimo risultato a Floridia, dove gli ex missini non hanno partecipato al secondo turno. Una certa indifferenza, celata da qualche simpatia, per il risultato di Di Mare ad Augusta (specie per la famiglia Cannata: Luca è sindaco di Avola, Rosanna deputata all’Ars). Ma non bisogna dimenticare la debacle della Catalano ad Agrigento, dove era arrivata persino la Meloni a comiziare. C’è una certa tendenza a “dividere” che i partiti della coalizione di governo dovrebbero accantonare, per evitare che riemerga nel momento del bisogno.

Un paio d’anni ci separano del verdetto delle Regionali: Musumeci spera nella ricandidatura, mentre tutti gli altri agitano un forte sospetto che possa essere lui il predestinato. Qualsiasi decisione passa – almeno – da un paio di momenti: il coinvolgimento degli alleati, su cui i centristi di Romano (e anche altri) battono da tempo immemore, e il “rimpastino” di governo. Il presidente della Regione ha promesso l’uno e l’altro. La spinta propulsiva a un’azione troppo logorroica (e poco efficace) da parte dell’esecutivo, passa dai tavoli di maggioranza. L’unica, vera legge organica di questa legislatura – la riforma Urbanistica – non ha superato il vaglio del Consiglio dei Ministri. E poi c’è il turnover degli assessori, che solo un pezzo di Forza Italia, quella che fa capo a Gianfranco Micciché, ha segnato in rosso sull’agenda. Anche la Lega sembra accondiscendere, sebbene un rimescolamento delle deleghe, soprattutto in questa fase, è difficile da immaginare. Se non impossibile. Musumeci, che su quella schiena dritta ci ha costruito una carriera, dovrà per forza piegarsi di fronte alle future avances. Altrimenti nessuno sarà disposto a spendersi per la sua causa.

Un altro tema, già affrontato, riguarda l’asse fra Partito Democratico e M5s. In prospettiva, rappresenta per entrambi una scialuppa di salvataggio. O questa o l’irrilevanza. Rimane, però, un forte dubbio sulla capacità dei Cinque Stelle di giungere al compromesso politico, o anche solo di accettarlo. La frittata di Carini, col grillino Conigliaro che è andato a rinfoltire la squadra di Sgroi, candidato del centrodestra, e per poco non ha fatto perdere Monteleone (Pd più Cento Passi), è una macchia indelebile che il risultato finale non è riuscito a sgrassare. Un difetto di fabbrica che va corretto al più presto. Un’operazione culturale che la base, anticasta e antitutto, fatica a comprendere. Ma che persino i dirigenti di partito, detti “portavoce”, non sembrano aver colto a pieno.

Il senso è che bisogna stabilizzare il modello Termini: soprattutto per coloro – i grillini appunto – che sul territorio hanno perso, dilapidato, esaurito la forza attrattiva di un tempo. Parlare del Pd, dei risultati di Marsala o di Agrigento, sarebbe, invece, come accanirsi sulla Croce Rossa. Qualcosa non funziona e si vede. Il segretario Barbagallo è in sella da pochi mesi e non può fare miracoli. L’unica strada – sembra lo dicano per consolarsi, ma è la realtà – è puntare sulla nuova classe dirigente, che sia in grado di fornire una scossa partendo dai piccoli comuni. L’esempio è Renzo Bufalino, sindaco di Montedoro, scelto come vicesegretario. O Fabio Venezia, da Troina, altro membro della segreteria Under 40. Il futuro è da conquistare. La disperazione degli uni e degli altri, per il momento, li obbliga a stare insieme, a riformare il modo di fare opposizione, a bipolarizzare il sistema. Non è detto che sia la strategia migliore di fronte a questo centrodestra, ma è l’ultima mossa rimasta. Poi bisogna scegliere le persone giuste: Maria Terranova, neo-sindaco della “città della ruggine”, ha tutta l’aria di esserlo.