Lezione numero uno: chiamiamo le cose col loro nome. È affascinante come i vitalizi – feticcio della storia della nostra Repubblica, protagonisti indiscussi delle battaglie politiche dell’ultimo quinquennio – fuori dalle aule del Parlamento si chiamino “pensione”, mentre una volta varcato il soglio parlamentare prendano il nome di “privilegi rubati alla dignità del Paese” (Giancarlo Cancelleri dixit).

In ogni caso, fughiamo ogni dubbio: dal 2011 i vitalizi non esistono più. I politici vanno in pensione col normalissimo metodo contributivo, la stessa sorte che accomuna noi cittadini, comuni mortali.

Chiarito ciò, facciamo un gioco: come reagiremmo se, sull’onda di un’opinione pubblica che considera eccessivamente elevata la retribuzione di una categoria professionale – una a caso, i presidi delle scuole – un intervento legislativo ne decretasse il ridimensionamento?

Il gioco è perverso, ma è quanto sta accadendo con la cosiddetta “pensione dei politici”. Si sta decidendo, ex post, di annullare un diritto acquisito e garantito.

Senza entrare affatto nel merito politico della vicenda, senza nemmeno lontanamente voler sondare la legittimità di una retribuzione per la professione politica, siamo sicuri che questa via – una legge retroattiva – non puzzi più di vendetta che di giustizia?

E se invece si trattasse di un primo tassello della teoria sulla decrescita pauperistica teorizzata dalla estrema sinistra extraparlamentare, marxista e sposata da Roberto Casaleggio?

Sarebbe un’estensione al sociale del perverso principio della colpa retroattiva: l’auspicio, la ricostituzione e la rifondazione sulla pelle delle generazioni anziane di un nefando avvio della lotta di classe.