Valeria Grasso è una testimone di giustizia che con le sue denunce fece arrestare alcuni componenti del clan Madonie di Resuttana, a Palermo, rei di averle chiesto il pizzo. L’imprenditrice, però, da qualche giorno è finita nella “black list” dell’Ucis, l’Ufficio centrale interforze per la sicurezza (creato dal governo Berlusconi nel 2002), che si occupa di distribuire le scorte a personaggi pubblici o parapubblici: dai magistrati ai politici, passando per imprenditori e giornalisti. Che condividano un aspetto, però: essere sotto minaccia da parte di qualcuno. La Grasso è finita nella “black list” nel senso che la scorta le è stata revocata. E’ successo alla vigilia della giornata mondiale contro la violenza sulle donne, e questo è stato uno dei numerosi appigli per azzannare – via social – la decisione del ministero dell’Interno: “Nell’epoca in cui il Ministro è una donna (Luciana Lamorgese, ex prefetto di Milano) e alla vigilia della giornata della violenza sulle donne, vengo lasciata sola, anche nell’impegno contro la criminalità e la mafia che mi vede tuttora in prima fila”.

La Grasso perde la propria protezione a Roma, dove vive col marito, ma la mantiene a Palermo, dove è ancora considerata “a rischio”. Ma ciononostante spara a zero sulle istituzioni e su una condotta definita “torbida, immotivata e incomprensibile”, anche perché il compagno, qualche mese fa, avrebbe trovato una busta di plastica contenente la testa di un piccione sull’insegna della trattoria che gestisce da vent’anni a Trastevere. Una chiara intimidazione mafiosa, secondo la Grasso.

Che per la sua condizione di “testimone di giustizia” l’ex governatore Rosario Crocetta aveva chiamato nel sottogoverno, affidandole – pur in assenza di esperienza diretta (la Grasso gestiva una palestra) – il ruolo di sovrintendente dell’Orchestra Sinfonica Siciliana. La Grasso tornò dalla località protetta in cui si trovava e aderì alla “rivoluzione” dell’ex sindaco di Gela. Senza troppa fortuna. L’incarico durò quattro mesi e non le venne rinnovato, tanto da convincere la paladina del fitness e dell’antimafia ad aderire all’Italia dei Valori, il movimento di Antonio Di Pietro. Si sarebbe dovuta occupare del laboratorio nazionale contro le mafie. Solo nel 2017, dopo aver chiesto personalmente la revoca della scorta (“Perché non ho a disposizione un mezzo idoneo” e “non voglio assumermi la responsabilità di quanto potrebbe accadere ai due uomini che garantiscono la mia tutela”), la Grasso tornò in platea per il progetto – poi naufragato – di Sicilia Riparte. Anche questo targato Crocetta.

La Grasso non è la prima, e non sarà l’ultima a cui viene revocata la scorta. E a lamentarsene. Sempre ieri – ma qui lo stile e le sfumature cambiano – è toccato a un altro imprenditore di Carini che ai tempi denunciò alcuni tentativi di estorsione a suo carico. Si tratta di Giuseppe Todaro, che però non l’ha presa sul personale: “Ritengo ogni polemica strumentale: ognuno è tenuto a fare il suo lavoro, anche quello di decidere e prendersi la responsabilità sul nostro livello di sicurezza. Ringrazio l’ufficio scorte per aver dato serenità alla mia famiglia” ha detto dopo aver appreso la notizia. La storia, però, è infarcita di finzioni e di “professionisti”. Destò clamore, nel 2015, la vicenda del sindacalista della Cgil Vincenzo Liarda, il cui impegno nella lotta ai boss di Polizzi Generosa, portò allo scioglimento del Comune e all’assegnazione della scorta. Fu la moglie a trovare nella tasca del marito una lettera di minacce (una delle tante) e spaventata, andò dai carabinieri. Che manco a dirlo ci trovarono le impronte di chi l’aveva impupata: lui medesimo. Così Liarda fu rinviato a giudizio per simulazione di reato e perse la protezione.

Il tema delle scorte – coi casi più celebri: dallo scrittore Saviano, a cui l’ex ministro Salvini promise di revocarla, alla senatrice Liliana Segre – è tornato d’attualità nell’ultimo anno. E fatica a dimenarsi fra situazioni di pericolo reali e protagonismo ossessivo. L’Ucis, seguendo le direttive di razionalizzazione di Salvini, ha imposto una cura dimagrante: al primo giugno 2019, le misure di protezione personale assegnate sono 569, l’8% in meno rispetto a dodici mesi prima. Di queste 274 riguardano magistrati, 82 i politici. E poi ci sono 45 imprenditori. Tra cui lo chef Natale Giunta – cucina a Termini Imerese ma anche a “La prova del cuoco” su Rai Uno – che ne beneficia da gennaio 2013, quando fece arrestare alcune persone che gli chiedevano il pizzo. Per ben due volte, a maggio 2018 e a luglio 2019, gli venne revocata la protezione di quarto grado, finché il 25 ottobre scorso, per la seconda volta, il tribunale amministrativo sospese la decisione dell’Ucis, riferendo che ci fossero ancora i segnali di un rischio concreto e attuale. “Un grazie ai giudici che hanno capito la mia situazione” ha commentato Giunta.

Non ha avuto lo stesso atteggiamento Antonio Ingroia, che qualche giorno fa si è visto negare dal Tar – per la seconda volta – la richiesta di sospensione del procedimento di revoca della scorta emesso dall’ufficio interforze a maggio 2018, quando il “boia” non era ancora Matteo Salvini, ma il “dem” Marco Minniti. Ingroia, che aveva inaugurato le indagini sulla Trattativa Stato-Mafia, portata in fondo dall’illustre collega Nino Di Matteo, era sottoposto a un rigido sistema di protezione sin dal 1991, quando lavorava al fianco di Paolo Borsellino. Il livello è sceso da 2 a 4 nel corso degli anni (prevede un’auto non blindata e due agenti), fino alla decisione di un anno e mezzo fa di cancellare il suo nome dalla lista dei beneficiari: non viene rilevata una “concreta e attuale esposizione a pericoli o minacce” si scrisse nelle motivazioni.

Ingroia, ottenuto il primo rifiuto del Tar, si appella al Consiglio di Stato, che il 10 maggio 2019 gli dà ragione “ordinando un’immediata rivalutazione della situazione di pericolo e – nelle more – il ripristino della misura di sicurezza revocata per effetto dell’accoglimento dell’istanza di sospensione”, ritenendo “non escluso” che “un rischio per la sua incolumità, connesso alla sua pregressa attività di magistrato, tuttora possa sussistere per un soggetto che è stato a lungo impegnato nella lotta alla mafia”. L’Ucis, però, ci passa sopra e non annulla la revoca. Il Tar, piuttosto, rincara la dose un paio di settimane fa, bocciando il nuovo appello di Ingroia, oggi avvocato di alcuni collaboratori di giustizia, che così esplode: “E’ chiaro che c’è qualche ‘venticello’ contro di me, ma non mi arrendo perché è per me ormai anche una questione di principio. Quindi appellerò la decisione del Tar ancora una volta davanti al Consiglio di Stato”.

Un anno fa nell’abitazione di Ingroia fece razzia un gruppo di ladri professionisti, che dopo aver messo a soqquadro la casa portò via solo alcune pendrive contenenti atti processuali del periodo da magistrato e da avvocato. Inoltre, da parte di coloro che si battono per la restituzione della scorta, come Nino Di Matteo (“E’ in pericolo” disse il pm nel 2018), puntualmente vengono ritirate fuori le minacce di alcuni membri delle organizzazioni criminali: da Riina, che definisce Ingroia “il re dei cornuti”, passando per l’ex mafioso Carmelo D’Amico che lo inserisce tra gli obiettivi di Cosa Nostra. Persino lo ‘ndranghetista Marco Marino, poi diventato un collaboratore di giustizia, parlò di venti chili d’esplosivo pronti per farlo saltare in aria. “La mafia non perdona” è il refrain.

Ma c’è una cosa che Antonio Ingroia non sopporta. I due pesi e le due misure utilizzate dal Tar del Lazio nella scelta di revocare a lui a la scorta, e di ripristinarla, invece, a Sergio De Caprio, al secolo il capitano Ultimo: “Vorrei capire – scrive Ingroia – perché lo stesso Tar del Lazio ha disposto il ripristino della scorta per chi ha deliberatamente scelto di non perquisire il covo di Riina e di sospendere ogni attività di osservazione sul covo, così obiettivamente agevolandone lo svuotamento da parte dei mafiosi”. Il capitano Ultimo, il 15 gennaio 1993, consegnò Totò Riina, il capo dei capi, alle patrie galere. Da quel momento convive costantemente con la paura. E anche il suo caso merita un’analisi più approfondita.

Al capitano Ultimo la scorta venne revocata il 3 settembre 2018 dal solito ufficio interforze, per la mancanza di “segnali di concreto pericolo per l’ufficiale”, ma anche per un altro paio di motivazioni: il lasso di tempo intercorso dall’assegnazione (era il ’93) e il fatto che nessun componente dell’arma dei Carabinieri, a parte lui, risultasse sotto protezione. De Caprio non la prese bene, tanto che nello scorso ottobre, prima della sentenza d’appello del Tar, comparve di fronte alle telecamere delle “Iene”, spiegando che poteva trattarsi anche dell’ultima intervista, “quindi facciamola bene”. E ricordando, col volto coperto fino agli occhi, i nomi di chi lo vorrebbe morto: da Leoluca Bagarella, suocero di Totò Riina, che sta scontando tredici ergastoli e, come rivelato da vecchie intercettazioni, avrebbe messo una taglia da un miliardo di lire sulla sua testa; passando per Salvatore Biondino, l’autista del boss di Corleone, anch’egli rinchiuso al 41-bis; e, per finire, ci sarebbe anche Matteo Messina Denaro, il reggente di Cosa Nostra ma superlatitante da 26 anni. Convinto, forse, da questi argomenti, il Tar del Lazio ha deciso annullare in via cautelare il provvedimento di revoca della scorta decisa dall’Ucis più di un anno prima. E’ la scorta, croce e delizia.