Il sintomo, o il reflusso gastrico, di una Sicilia che non ingrana, lenta nella politica e nella burocrazia, incapace di dare respiro alle grandi opere e alle infrastrutture, o una chance ai posteri, è un comunicato stampa battuto in questi giorni dall’assessorato regionale alle Infrastrutture, che recita più o meno così: a quattro anni dalla frana di Letojanni, che ha reso un calvario la percorrenza dell’A18 Catania-Messina, partono i lavori per la sua rimozione. Della frana s’intende. Sono passati quattro anni – l’episodio risale all’ottobre del 2015 – e le montagne di detriti, colme di una vegetazione rigogliosa e spontanea, sono ancora là. E “tecnicamente” non verranno spostate. Come ha spiegato l’ingegner Mainaldi, direttore generale facente funzioni del Cas (Consorzio Autostrade Siciliane), ci scaveranno sotto due gallerie perché, data l’instabilità del pendio e il fatto che lo smottamento non si è ancora arrestato, rimuovere la frana non sarebbe stato possibile. Il lavoro procederà in diverse fasi. ci vorranno 15 milioni di euro e due anni d’attesa. Sei anni, in totale, per ripristinare la doppia corsia.

I lavori sono stati assegnati alla vigilia di Ferragosto dalla Protezione Civile. Ma è impossibile non rimarcare quanto sia stato forte il disagio per automobilisti e camionisti che circolano su quell’asse: “La frana di Letojanni – ha detto il presidente della Regione Nello Musumeci – rappresenta una delle più grandi vergogne che abbiamo trovato sul tavolo al nostro insediamento. In quattordici mesi di azione di governo, siamo riusciti a cancellare lunghi anni di trascuratezza, di inefficienze della politica e della burocrazia, rispettando la tabella di marcia che ci eravamo prefissati. Abbiamo lavorato sodo per recuperare il tempo perduto e dare ai siciliani la sicurezza e le infrastrutture che meritano”. C’è voluto comunque troppo, e i siciliani meriterebbero qualcosina in più: a rallentare il bando di gara – che si è chiuso entro agosto per la gioia dell’assessore Falcone (“Abbiamo anticipato i tempi, la gara è durata soltanto 40 giorni”) – sono stati diversi passaggi. Ad esempio l’eterno rimpallo di responsabilità fra chi fosse intitolato a finanziare e dirigere i lavori fra Protezione Civile e Consorzio autostradale, o ancora le inchieste giudiziarie che hanno coinvolto il Cas, rimasto a corto di progettisti.

L’area fu anche posta sotto sequestro dalla procura di Messina e nel registro degli indagati finì– per disastro ambientale in concorso – il sindaco di Letojanni che, assieme al capo tecnico del comune ionico, non avrebbe effettuato i controlli sul sistema di smaltimento delle acque piovane dei complessi edilizi che sorgono sulla collina. Che, invece, sarebbero state sversate illecitamente fino a provocare il movimento franoso. Una “summa” di responsabilità che non cancella l’inadeguatezza della classe politica e della pubblica amministrazione. Che sono arrivati sempre troppo tardi (i nuovi cantieri partiranno a ottobre). Anche il Ministro Danilo Toninelli, che nello scorso marzo completava uno dei numerosi tour per i cantieri dell’Isola, aveva segnalato come quella di Letojanni fosse una delle 541 inadempienze del Cas, contro cui si batte (e con lui Musumeci) dal primo giorno: “È una vergogna – disse il grillino -. O si cambia passo o evidentemente non si può andare avanti. Il mio ministero attraverso l’Ufficio territoriale ispettivo ha un braccio operativo in Sicilia per fare verifiche su tutta la rete stradale ma ci sono troppi inadempimenti soprattutto per quanto riguarda la sicurezza”.

L’autostrada A18, da pochi mesi, era diventata l’unico collegamento veloce per gli autotrasportatori che volevano raggiungere Palermo. Il 10 aprile 2015, infatti, il crollo del viadotto Himera, a pochi chilometri dai centri di Caltavuturo e Scillato, lungo l’A19, aveva spezzato in due la Sicilia, facendo venir meno i collegamenti fra il capoluogo di regione e Catania. Il ponte – una vecchia costruzione del 1972 – si era accartocciato in direzione Catania, finendo a strapiombo sulla carreggiata opposta. Nessuno, a quanto pare, aveva vigilato su una frana di natura argillosa che procedeva a monte del viadotto, ingoiando progressivamente strade e abitazioni. Fino all’epilogo di aprile. L’autostrada venne chiusa e fu l’inizio di una lunga odissea. Per raggiungere il capoluogo, nei primi otto mesi, bisognava aggirare l’ostacolo e percorrere 40 km di curve e strade accidentate fra Tremonzelli, Polizzi e Scillato.

Il crollo del viadotto Himera diede anche al Movimento 5 Stelle la possibilità di mettersi in vista. Con il risparmio di 300 mila euro sugli stipendi dei deputati regionali, venne finanziata la bretella di Caltavuturo, lunga un chilometro, mentre un altro tratto (dallo svincolo di Scillato fino al viadotto) fu inaugurato nel dicembre 2015, accorciando i tempi di percorrenza nelle Madonie. Nel 2016, venne riaperta la carreggiata per Palermo dopo che il viadotto danneggiato era stato abbattuto con una carica di esplosivo. Solo a febbraio 2018 in Gazzetta ufficiale venne pubblicata l’aggiudicazione della gara per la ricostruzione. Tempi previsti: 18 mesi per 270 metri, a un costo di 11 milioni. Mezzo metro al giorno. Ma l’appalto viene consegnato dopo un tempo irragionevole e tutto si dilata nel tempo: solo nello scorso maggio sono partiti i lavori che prevedono la realizzazione di tre nuove campate in acciaio. La strada per riunire la Sicilia è ancora lunghissima.

Chi, al momento, resta fuori dal mondo sono i ragusani. La provincia iblea continua a detenere un record poco invidiabile. È l’unica provincia d’Italia senza un chilometro d’autostrada. La Siracusa-Gela rimane un’arteria per buona parte “fantasma”: il tratto veloce si interrompe magicamente a Rosolini, nel Siracusano. Mentre la futura superstrada Ragusa-Catania (al momento è una Statale che provocato 500 morti negli ultimi trent’anni), resta nelle buone intenzioni della politica, ma soltanto lì. Di recente l’ex segretario regionale del Partito Democratico, Davide Faraone, l’ha percorsa a piedi, in poco meno di 24 ore, per esaltarne la pericolosità.

Il cantiere non è mai partito e all’esproprio dei terreni, avviati dall’ultimo governo Gentiloni, non sono seguiti i fatti. Anche in questa occasione per una volontà che si fatica a non definire “politica”: da mesi, infatti, si attende il via libera del Cipe, il comitato interministeriale per la progettazione economica, su un progetto di finanza da 900 milioni elaborato dal gruppo Sarc dell’ex parlamentare Vito Bonsignore. Ma i Cinque Stelle, dopo aver ritardato a lungo il via libera, hanno deciso di mischiare le carte in tavola. E di rivendicare per lo Stato la paternità dell’opera (pur di abbattere il costo del pedaggio, si dice). Bisognerà ottenere i nuovi permessi, pagare un fiume di soldi al concessionario per la “vendita” del progetto e per il mancato utile, trovare mezzo miliardo per finanziare l’autostrada. E poi bisognerà indire una nuova gara perché serve qualcuno che la realizzi. Ipoteticamente, dai quattro ai cinque anni di gestazione. Sempre che la crisi di governo risparmi a Ragusa (e a Catania) una fine ancora più ingloriosa.