Per un partito che sta cercando di costruire la propria immagine sui concetti di legalità, sicurezza e rispetto delle regole, non sarà stato piacevole apprendere che il sindaco di Catania, Salvo Pogliese, è stato sospeso per la seconda volta dalle sue funzioni, in ossequio alla Legge Severino, per effetto di una sentenza di primo grado che l’ha ritenuto colpevole di peculato (condanna a 4 anni e 3 mesi). Ma qui non si vuole indagare il merito della sentenza, tanto meno la decisione della Prefettura che, in mancanza di un pronunciamento da parte del Tribunale, ha provveduto a determinare l’ultimo esito. Bensì i principi cardine dell’attività di Giorgia Meloni e di Fratelli d’Italia, che per evitare di incorrere nella “doppia morale” cara a tanti politici, e salvaguardare i valori di cui Meloni – donna, mamma, cristiana – si fa portatrice, farebbe meglio a buttare un occhio su ciò che da un po’ di tempo avviene nella destra siciliana.

Un mondo dove troppo spesso si chiude un occhio di fronte a situazioni che meriterebbero analisi più approfondite sotto il profilo etico. Etico, non giudiziario (la giustizia farà il suo corso). L’unico picco di esaltazione Meloni l’ha raggiunto il 9 ottobre dell’anno scorso, quando venne a sapere dalla stampa locale, ripresa poi da quella nazionale, che l’assessore al Turismo, Manlio Messina, aveva sventato l’offerta di una tangente da 50 mila euro per l’organizzazione di uno spettacolo musicale, denunciando tutto. Erano i giorni dell’inchiesta di Fan Page, degli intrallazzi fra rappresentanti di FdI ed esponenti dell’estrema destra, che si traducevano in uno scambio di voti (presunto) dietro (presunti) finanziamenti in nero. Un polverone, alla vigilia delle Amministrative di Roma e Milano, che costrinse il fidatissimo europarlamentare Carlo Fidanza ad autosospendersi da tutti gli incarichi all’interno del partito.

Ecco, in quei giorni, dalla Sicilia arrivò un messaggio di speranza. “In occasione di un evento musicale, hanno tentato di corrompere il nostro assessore al Turismo Manlio Messina con una tangente di 50 mila euro – scrisse la Meloni su Facebook -. I malavitosi non hanno fatto i conti con il nostro assessore e il suo staff, che hanno prontamente denunciato l’accaduto. Il grande circo mediatico, tanto caro alla sinistra, su questo episodio però preferisce tacere. Probabilmente perché scomodo a una certa narrazione che mira solo a demonizzare il nostro partito. Fratelli d’Italia ha sempre fatto della legalità la sua bandiera: se ne facciano tutti una ragione”. Che fine abbia fatto l’inchiesta giudiziaria sulla tangente, che secondo alcune rivelazioni giornalistiche poteva far saltare in aria importanti esponenti della Palermo bene, non è dato saperlo. Sono passati dieci mesi da quella denuncia e la magistratura palermitana non ha ritenuto ancora di prendere un provvedimento. Può darsi che la faccenda sia stata esasperata o sovradimensionata per regalare uno scoop ai giornali e intestarsi gratuitamente un atto di eroismo?

È chiaro che la visione “apostolica” di Manlio Messina avrebbe finito per offuscare il resto. Compresi gli insulti e gli improperi rivolti dall’esponente della giunta Musumeci ad alcuni organi di stampa, rei di aver ricostruito il dialogo “colorito” sui social con alcuni detrattori, a proposito dell’utilizzo del Green pass, e aver svelato le panzane sul vaccino ai minorenni. “Su**”, fu uno degli inviti più garbati rivolti a chi tentava di confutare le sue tesi. Toni che non si addicono a un’istituzione. Per quelle espressioni, Messina rivelò in un’intervista a ‘La Sicilia’ di aver ricevuto una richiesta di spiegazioni da parte di Musumeci, e un invito a un uso più morigerato di Facebook. Nulla più. Assolto con formula piena perché il fatto non sussiste. D’altronde, se ti chiami Manlio Messina e fai l’assessore alla Regione, è un classico farsi prendere la mano sui social e sparare nel mucchio. O no?

La vicenda dell’assessore al Turismo non c’entra nulla con quella di Pogliese. Corrono distanti e parallele, sotto il profilo etico, giudiziario e, per fortuna, della continenza espressiva. Ma proprio nei giorni in cui il tandem è a Roma per perorare la causa di Musumeci a palazzo d’Orleans, o, al limite, per scritturare un copione d’emergenza in cui il governatore finisca al Senato e i suoi collaboratori più fedeli alla Camera, sarebbe logico aprire una riflessione sulle doti morali di questo governo regionale. Doti che vanno al di là dell’azione politica. Nel corso di questa legislatura non saranno sfuggite alla Meloni un paio di vicende borderline: a partire dalla bufera che si è abbattuta sulla sanità, con le dimissioni dell’assessore Razza. Che è tuttora indagato nell’inchiesta di Palermo sui “dati falsi”, utilizzati dal dipartimento Attività sanitarie del suo assessorato – secondo l’accusa – per evitare il cambio di colore. Razza, a due mesi dal bubbone giudiziario, è stato ri-accolto in giunta da Musumeci. Il quale non ha tenuto conto dei tempi della giustizia e dell’operato dei magistrati, e ha deciso che la frase pronunciata al telefono sui “morti spalmati” (di cui Razza s’è scusato) fosse una semplice leggerezza. Un peccatuccio “passabile”. “Dal primo momento ho detto che le indagini giudiziarie e le responsabilità politiche devono essere separate – disse Musumeci, giustificando il ritorno in campo del suo ‘delfino’ -, nel pieno rispetto per il lavoro della magistratura e dei princìpi che regolano la nostra vita democratica. Per questo ho insistito con Ruggero Razza affinché potesse riprendere il ruolo che gli avevo assegnato”.

La sanità, una materia che in tempo di pandemia rischia le infiltrazioni più disparate, va salvaguardata. Nel va del buon nome della Regione. Si potrebbe partire, ad esempio, dando una risposta agli atti parlamentari del Pd, che ha chiesto “chiarimenti sugli affidamenti degli incarichi professionali per gli interventi per l’emergenza Covid 19”. Ma poi ci sono degli altri fatti che Musumeci, in qualità di capo del governo, dovrebbe approfondire. A partire dalla presenza costante di un faccendiere dal passato opaco nelle stanze più ovattate dell’assessorato all’Economia. Episodio portato a galla dal deputato del Pd, Antonello Cracolici, e non ancora smentito. “Sembrano tornati gli anni in cui i faccendieri – persone che, nella maggior parte dei casi, hanno avuto vicende giudiziarie poco trasparenti – giravano negli uffici degli assessorati; sento – ha spiegato Cracolici – di acquisizioni o cessioni di obbligazioni societarie a favore di discussi (e discutibili) intermediari finanziari. C’è il rischio che in attesa del big bang, ognuno cerchi di arruffare il possibile”. Arruffare è cosa ben diversa alla nobile arte (sic!) di spartirsi le poltrone di sottogoverno. Significa essere permeabili ad interessi esterni ed estranei. Una questione non di poco conto. Di fronte alla quale il governatore Musumeci ha preferito e preferisce girarsi dall’altra parte.

Come è avvenuto sull’eolico. Paolo Arata, consigliere della Lega sui temi dell’energia, faccendiere del “re del vento” Vito Nicastri, a sua volta presunto finanziatore della latitanza di Messina Denaro, si presentò più volte alla Regione dove sosteneva di poter contare su ottimi agganci fra politici e burocrati. Per fortuna le sue proposte furono ricacciate al mittente, anche se le responsabilità non sono state chiarite del tutto. Anche sul business dei rifiuti, sulla centralità delle discariche, sulla concessione di proroghe e autorizzazioni ambientali, sui privilegi goduti da talune famiglie, non c’è mai stata una parola di chiarezza. Definitiva e granitica. Se non un tentativo astratto e generalizzato, da parte del presidente della Regione, di rivendicare la sua enorme statura morale. “Abbiamo tenuto la mafia lontana dal governo regionale, nonostante abbiano tentato di sfiorarci – disse durante una convention allo Spasimo di Palermo -. Vuol dire che c’è un presidente rigoroso e che sta con quattro occhi aperti”. Un concetto ribadito più volte anche altrove. Nell’ultima versione del Nello furioso, però, Musumeci s’è spinto nel campo della prevaricazione. Ha scantonato. Soprattutto nei confronti dei deputati, considerati “ricattatori” e “scappati di casa” per avergli teso un tranello. Ha parlato di “atto d’intimidazione”, ma ha lasciato la denuncia a metà. Senza fare nomi e cognomi. Un’incompiuta.

Da un partito come Fratelli d’Italia ci si aspetta rigore sempre. Disciplina ovunque. Trasparenza in primis. E sarebbe il caso che questo tema venisse risfoderato nei salotti romani dove la Meloni, donna di polso e impossibile da scalfire, riceverà in processione i siciliani in cerca di una riconferma. O di una rampa di lancio alternativa, come per l’assessore Messina che smania dalla voglia di ritagliarsi un seggio a Montecitorio. Chiedere come vanno le cose in Sicilia prescinde dai rapporti di coalizione e dal mero aspetto dell’azione politica. Non che su quel fronte ci sia molto da raccontare…