Conosco un ragazzo che lavora di notte in un bar, attacca alle dieci e torna a casa alle sei del mattino. Condivide il letto con la moglie nel suo giorno libero. Michele fa l’infermiere all’ospedale Civico, due volte a settimana gli tocca il turno notturno: l’altra mattina è passato dal bar per prendere i cornetti da portare a casa. Aveva appena finito, l’ho visto stanco come mai e gliel’ho detto. “Brutta nottata”, mi ha detto, e non ha aggiunto altro. Fa questa vita da dieci anni.

I ragazzi che lavorano con me al bar hanno il giorno libero dal lunedì al venerdì, raramente il sabato e la domenica. Il bar è una bestia aperta 365 giorni l’anno, e il sabato e la domenica sono i giorni in cui si lavora di più. Quando lavoravo al giornale era uguale. I fine settimana erano banditi. Non l’ho mai vista come una sofferenza o una privazione. Il mondo gira anche il sabato e la domenica, ve ne siete mai accorti?

Vi dico la verità: guardando su Repubblica.it il video dell’impiegata al centro commerciale che lancia il suo grido di dolore perché nel fine settimana vorrebbe stare coi figli e non può ho riso. Ho riso. Una denuncia surreale, patetica e anche offensiva, soprattutto in quel passaggio in cui parla di abusi, testuale, da parte del datore di lavoro. L’abuso del suo datore di lavoro che, poverella, non le consente la scampagnata all’agriturismo o a bere il vinello dei Castelli assieme agli amici. Conoscete ingiustizia più ingiusta?

La signora è separata e ha i figli a carico. E allora? Questo dovrebbe muovermi a compassione? Cinicamente dovrei dire che la vita è fatta così. Più concretamente dirò invece che conosco fiumi di gente che vorrebbe essere al posto di questa donna eletta dal giornalismo chic a paradigma di tutte le ingiustizie sociali. Vengano dalle mie parti i solerti cronisti a caccia di populismo a buon mercato: gli presenterò Vincenzo, un ragazzo che dorme in un furgone abbandonato dietro al bar da quando la moglie lo ha lasciato. Non ha un lavoro e ormai è così fuori di testa che non troverà mai più qualcuno disposto a scommettere su di lui.

Ho sul mio tavolo pile di curriculum di uomini e donne che quel part time da venerdì, sabato e domenica lo firmerebbero col sangue; persone con esperienza da banconista, da pasticciere e da rosticciere che, nonostante le competenze, non avrebbero difficoltà a riciclarsi come fattorini e tuttofare, con l’umiltà di chi capisce che non è più tempo da puzza sotto il naso e che lo stipendio, oggi, ha un prezzo più alto che in passato.

A fronte di tutto ciò che tipo di empatia possiamo provare nei confronti della donna privata del sacro week end? Che tipo di solidarietà possiamo sperimentare verso una lavoratrice che, in spregio ai milioni di senzalavoro che darebbero un braccio per un lavoro come il suo, mette sullo stesso piano il lavoro nel fine settimana e l’abuso contrattuale?

L’abuso, gentile signora, è il padrone che si mette in tasca metà del tuo stipendio costringendoti a firmare la busta paga, è la malattia non riconosciuta, è il giorno libero e le ferie negate, non altro. Non altro.

È questo il famoso servizio giornalistico che andate cercando? La lavoratrice che prepara il caffè nella sua casetta e che davanti alla telecamera frigna per l’abnorme ingiustizia del sabato al lavoro nel centro commerciale? Sia riconoscente, piuttosto. E chieda scusa a chi non ha la sua fortuna, e se le resta tempo anche al suo datore di lavoro. A questo siamo, al padrone che abusa di te per il fatto di garantirti un lavoro e uno stipendio. A quando un #Metoo per i lavoratori costretti a lavorare? Qualcuno mi salvi da questa melassa.