Il siciliano immaginario parlato dal commissario Montalbano genera una Sicilia che esiste solo per il pubblico di Andrea Camilleri.

È davvero l’isola che non c’è quella dei suoi libri, nessun siciliano – sebbene quella chimera sia fatta di mare e di cannoli – l’ha mai vissuta.

È una Sicilia di allegria, la sua, dunque impossibile in quella di ogni giorno dove incombe la cupa cappa dell’impasto barocco.

Non è che ingegno del suo mirabile zolfo perfino la casa sulla spiaggia a Punta Secca – sebbene sia un B&B – ed è ovviamente ancora più vera di quella reale quella sua Sicilia che si dispiega nelle pagine degli innumerevoli romanzi di Vigata.

La Fiat Tipo, una macchina che nessuno manco vorrebbe regalata, per quella felicità speciale di Camilleri – già solo perché la fa guidare a Salvo Montalbano, parcheggiata davanti al “commissariato” di Scicli – sembra bella più della Nike di Samotracia.

Certo, quel comprensorio di sontuosa bellezza, c’è per davvero. È il set ibleo dove con geniale intuizione Carlo Degli Esposti, il produttore tivù, ha ambientato la serie dei Montalbano. Per davvero – senza faticare troppo col casting – si trovano i tipi adatti al segno di viva letteratura imposto da Camilleri ma come l’America ha comunque avuto necessità di essere cantata da Bruce Springsteen, così la Sicilia è diventata pop con Catarella senza attendere la famosa riabilitazione elargita dall’intellighenzia.

È la riabilitazione toccata in sorte all’Opera dei Pupi – derivata dalla Chanson de Roland, oggi ai vertici dell’epica universale – o il ripristino nei meritati ranghi di Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, reietti a lungo, e solo dopo un’eterna gavetta accolti da Pier Paolo Pasolini e dai fratelli Taviani.

Sicilianuzzi dell’immaginario, Ciccio e Franco: figli della fame, icone della smorfia affratellate alle maschere dei mostri di pietra esibiti a Villa Valguarnera, a Bagheria, sono gli inciampi dello sghignazzo riconoscibili nelle espressioni comiche dell’agente addetto al centralino del commissariato più amato dal grande pubblico – interpretato da Angelo Russo – come allo stesso modo Luca Zingaretti prima e Michele Riondino dopo, porgono al personaggio di Salvo giovane e Salvo vecchio le movenze e gli scatti dei paladini dell’Opra, perfetti come sono, perfino nella camminata a gambe arcuate, a replicare l’atteso compimento della giustizia.

La letteratura italiana del Novecento è quella siciliana. Con Giovanni Verga, con Luigi Pirandello e con Leonardo Sciascia che non parlano mai al proprio recinto, ma piuttosto a Parigi, a Bonn e a Mosca, la Sicilia va a collocare se stessa in un contesto universale.

E quel che viene dopo, fino ai giorni nostri – con Gesualdo Bufalino, con la raffinata poesia di Lucio Piccolo e con Stefano D’Arrigo – sconfina nello sperimentalismo, dismettendo i cascami del bozzettismo di genere, incontrando l’uso e il consumo del pop.

L’uso e il consumo del successo del quale il solo Camilleri, da vero rabdomante, afferra il meccanismo della fabula facendo di quell’invenzione degli dei – solo questo è la Sicilia – un puro pretesto di vivo racconto.

Tale e quale Prometeo che ruba il fuoco ai numi per farne dono agli umani, così Camilleri che strappa all’Olimpo quella vampa di zolfo che è la Sicilia per farne un pretesto di ghiotta fantasia a disposizione del pubblico.

Tale e quale Tiresia, manco a dirlo, il cieco la cui luce ha avuto esito a Siracusa, un anno fa, con Camilleri che si siede al centro del Teatro Greco e di parola fa il Verbo di un destino dove tutto torna e di ogni istante ne fa l’eterno. Dovevate esserci, quella sera, in quel monologo dove la voce di Camilleri – la sua speciale e robusta voce – chiamava all’appello gli stessi Dei in qualcosa che non era solo uno spettacolo, ma un’idea di Sicilia svelata nel principio universale della luminosa poesia.

Tutta la Sicilia che lui ha fabbricato nell’immaginario è un fato affatturato di malie: la sua risata, per esempio, è tutto un ridere che sfascia e crea, ricrea e poi smonta ancora. Come il piccolo Krsna quando fabbrica il mondo, come il Triskele di Trinacria che esiste solo nel mito, nel solito caro sogno fatto in Sicilia.