Era arrivato alla procura di Palermo nel dicembre del 2014, quando tra i corridoi del palazzo di Giustizia ribollivano ancora i furori e i veleni della Trattativa, una boiata pazzesca concepita da un gruppo ristretto di magistrati coraggiosi e destinata a tenere banco, nelle aule della Corte d’Assise, fino al luglio di quest’anno. Erano i tempi in cui svolazzavano sui giornali e sui talk-show le tesi mirabolanti del procuratore aggiunto Antonio Ingroia e del suo pataccaro di fiducia, Massimo Ciancimino, figlio di quel don Vito che fu sindaco mafioso e rappresentante politico dei sanguinari corleonesi capitanati da Totò Riina, detto u’ curtu. Erano i tempi in cui i pubblici ministeri di quel processo – Ingroia, trombato alle elezioni politiche del 2013, aveva appena lasciato la Trattativa in eredità a Nino Di Matteo, Vittorio Teresi, Roberto Tartaglia e Francesco De Bene – credevano di potere sventrare i sotterranei più oscuri dei palazzi romani, compreso il Quirinale, e di scoprire tutte le collusioni tra politica, servizi deviati e i boss di Cosa Nostra. Erano tempi torbidi. Malsani. Inquinati da arroganze che rischiavano di compromettere non solo la credibilità della giustizia, ma anche gli equilibri istituzionali della Repubblica. Francesco Lo Voi ha compiuto il miracolo: dopo sette anni di lavoro silenzioso, composto, e comunque lontano dal palcoscenico mediatico, lascia una procura serena, pacificata, autorevole. Ieri il Consiglio superiore magistratura gli ha assegnato a larga maggioranza il vertice della procura di Roma. Prenderà il posto che, per un breve periodo, dopo la lunga gestione di Giuseppe Pignatone, pure lui palermitano, è stato di Michele Prestipino, la cui nomina però è stata definitivamente annullata poche settimane fa dal Consiglio di giustizia amministrativa su ricorso dello stesso Lo Voi e del procuratore generale di Firenze, Marcello Viola. Nel plenum di ieri Lo Voi ha ottenuto diciannove voti, mentre a Viola, candidato di minoranza, sono andati solo due voti: quello di Di Matteo e quello di Sebastiano Ardita. Tre gli astenuti. “Ringrazio il Csm e ringrazio ed abbraccio Michele Prestipino che è e rimane un grande amico e un grande magistrato”, ha tenuto a dire Lo Voi, raggiunto dall’AdnKronos subito dopo la nomina.

Il voto contrario di Di Matteo, era a dir poco scontato. Dopo essersi intestata, tra il 2013 e il 2018 nell’aula bunker dell’Ucciardone, la titolarità della Trattativa, il magistrato più scortato d’Italia – forte del successo ottenuto con la sentenza di primo grado – era passato di gran fretta prima alla procura nazionale antimafia e subito dopo al Consiglio superiore della magistratura. Dove ieri ha pronunciato, manco a dirlo, un sonoro no nei confronti del suo ex capo.

Tra Di Matteo e Lo Voi, negli anni palermitani, non ci sono state mai clamorose divergenze. Nessuno dei due ha mai dichiarato ufficialmente guerra all’altro. C’è stata una forzata e civile convivenza. Senza liti rumorose, senza strappi, senza lacerazioni evidenti. Di Matteo ha coltivato la sua immagine di giudice coraggioso, ha girato in lungo e largo per l’Italia a raccogliere cittadinanze ordinarie, ha scritto i suoi libri, ha partecipato a dibattiti e conferenze, ha mantenuto la sua corte di giornalisti devoti, non s’è persa un’intervista, ha tentato pure di conquistare la direzione del Dap, il ricchissimo e potentissimo dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e ha contestato duramente in tutte le sedi – dagli studi di Giletti fino a San Macuto, sede della Commissione parlamentare antimafia – l’ex ministro grillino della Giustizia, Alfonso Bonafede, che gliel’aveva promessa e dopo ventiquattr’ore se l’è rimangiata.

Lo Voi invece ha seguito la via della discrezione, della riservatezza: niente clamore, niente inchieste montate per stupire l’opinione pubblica, niente processi azzardati. In sette anni il procuratore di Palermo non è mai entrato in uno studio televisivo e se ha preso in mano un microfono lo ha fatto per fornire, con una rituale conferenza stampa, i dettagli di una inchiesta; o per commemorare Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e le altre vittime delle stragi mafiose. In sette anni, con il “doveroso silenzio”, ha ridotto le cosche a rimasugli. Ha arrestato l’ultimo padrino della Cupola, Settimo Mineo, 83 anni, e anche l’ultimo rampollo, appena ventenne, della tremenda famiglia di Ciaculli, quella che negli anni leonini di Cosa Nostra faceva capo a Michele Greco, detto “il papa”. Non ha seguito i metodi dei suoi predecessori, meno che meno quello messianico di Gian Carlo Caselli e di tutti coloro che volevano “riscrivere la storia d’Italia”. E’ stato il procuratore che ha riportato Palermo alla normalità. Una qualità che il plenum, a stragrande maggioranza, ha ritenuto ieri la più idonea per rasserenare la procura di Roma dopo le devastazioni innescate dal caso Palamara e dalle trame che l’ex ras dell’Associazione magistrati intesseva con i leader delle altre correnti per assicurarsi i controlli dei principali uffici inquirenti, primo fra tutti quello della Capitale.

La partenza di Lo Voi per Roma apre immediatamente un interrogativo: chi gli succederà a Palermo? C’è una coincidenza. Nei primi mesi del 2022 raggiungerà l’età pensionabile e lascerà il suo incarico di Procuratore generale anche Roberto Scarpinato, capofila dei magistrati coraggiosi, che negli anni Novanta imbastì una colossale e vaporosa inchiesta sui cosiddetti “sistemi criminali”. Il dossier – nel quale entravano logge massoniche, boss mafiosi e gli inevitabili servizi segreti deviati – non ebbe grande successo e fu archiviato. Lo riprese in mano, qualche anno dopo, Antonio Ingroia, che da procuratore aggiunto di Francesco Messineo, lo trasformò in un romanzo ancora più ampio e con un protagonista – il pataccaro Massimo Ciancimino – che, parlando come ventriloquo del padre boss, avrebbe fatto certamente gola ai più spregiudicati giornalisti del circo mediatico giudiziario.

Quel mondo è crollato. Pietra dopo pietra. Ingroia, inebriato ed esaltato dalle comparsate televisive, credette di toccare il cielo con un dito: discese nel campo della politica, si candidò alla presidenza del Consiglio, ottenne lo zero virgola e lasciò la magistratura: ora fa l’avvocato e cerca lustro da Gina Lollobrigida, ultima sua cliente di grido. Massimo Ciancimino, travolto dagli abbracci di Salvatore Borsellino, fratello del giudice straziato dalle bombe in via D’Amelio, si sentì per qualche anno il padrone e il boss di tutta Palermo, al punto da tenere 23 candelotti di tritolo nascosti nel giardino di casa. E finì in galera. Ora l’hanno affidato ai servizi sociali. La sentenza di primo grado sulla Trattativa – quella che aveva accolto le tesi dell’accusa e aveva determinato il trionfo di Nino Di Matteo – è stata ribaltata nel luglio scorso dalla Corte d’Appello che ha, senza mezzi termini, ridotto in polvere tutto l’impianto costruito in quasi vent’anni da Scarpinato, Ingroia e dagli eroici pubblici ministeri che per cinque anni hanno fiancheggiato in aula Di Matteo.

Certo, le successioni ai vertici della magistratura palermitana non saranno decise domani. Ci saranno mesi di vacatio, si andrà ai tempi lunghi. Ma, pur mettendo nel conto tutti i possibili colpi di scena, sarà molto difficile che il giustizialismo dei cosiddetti magistrati coraggiosi riesca a riproporsi e a riconquistare le posizioni perdute. La normalità imposta da Lo Voi appare granitica, marmorea, irreversibile.

(Questo articolo è stato pubblicato su ‘Il Foglio’ il 23 dicembre scorso)