La vicenda è una, ma il racconto è duplice. Da una parte la cronaca dei giornali che per legge, e per pudore, cercano di tutelare l’intimità della vittima. Dall’altra il racconto minuto per minuto della stessa vittima, una ragazza di 19 anni che rimane incollata al cellulare anche nei momenti più drammatici. Riversa sui suoi lettori ogni dettaglio, ogni umore, ogni sentimento. Persino se stessa, col suo nome e le sue foto.

È la liquefazione dei freni inibitori, mentre la ragione tenta di resistere sull’orlo del precipizio. Ci sono sette ragazzi sotto inchiesta a Palermo. Devono difendersi dall’accusa di avere abusato, a turno, di una loro coetanea incontrata in una serata di malamovida, spinta a bere alcol e infine condotta in un luogo appartato della città. In una storiaccia da cui trasuda degrado ancor prima della eventuale colpevolezza giudiziaria, la vita reale e quella social smettono di seguire percorsi paralleli. Siamo oltre lo stadio degli incroci pericolosi, di quei corto circuiti purtroppo accaduti in passato in cui c’è chi annuncia un delitto via Facebook poco prima di commetterlo.

La dimensione fatta di profili e like ha polverizzato la realtà vera, travolgendo tutto e tutti. A cominciare dai giornalisti le cui regole deontologiche smettono di essere doverosi paletti per divenire gabbie e muri invalicabili. Non si può fare il nome della vittima, non si dice il quartiere dove abita, che lavoro fa, se ha parenti. Nessun riferimento alla cerchia delle sue amicizie. Va cassato ogni elemento che possa contribuire alla identificazione. Nei resoconti giornalisti compaiono nomi di fantasia, si dà fondo al repertorio di sostantivi e aggettivi per tutelare la vittima che, di contro, va in diretta su TikTok e Instagram. Mostra il suo volto (ha tutto il diritto di farlo, ci mancherebbe), parla della sua vicenda, interagisce con migliaia di follower bramosi di conoscere ogni dettaglio. Lei non si sottrae alle domande. Risponde e traccia un’architettura comunicativa dirompente. Detta i tempi di uno spartito ossessivo, furioso, con le sue scale tumultuose, i salti rabbiosi e i vorticosi arpeggi. Si salta, infatti, dalla stanza di una caserma dei carabinieri, fredda come il verbale di denuncia trascritto dal maresciallo di turno, alle chiassose pagine di TikTok, dalle formalità di un’aula di giustizia alle Storie di Instagram. Per i giornalisti è un continuo correre da un posto all’altro e un rincorrere per capire cosa pensa e cosa dice la ragazza, per conoscere le sue reazioni ai passaggi giudiziari che si susseguono. Lei non si sottrae. Reagisce, con il linguaggio dei social, dopo l’esecuzione di una misura cautelare, dopo un interrogatorio, dopo il deposito di un nuovo atto giudiziario, dopo un insulto ricevuto da chi la ritiene responsabile di avere rovinato la vita a dei bravi ragazzi. Raduna il pubblico e va in diretta. Lo sfondo è in penombra. Si strizzano gli occhi per mettere a fuoco i dettagli. Da quale posto è collegata? Si trova nella comunità dove ha trovato riparo e conforto di esperti e psicologici? Nella sua stanza o in balcone? Lo schermo è inondato da una frenetica pioggia di emoticon che zampillano. Scorrono le domande, con la cadenza di un metronomo in accelerazione. Lei non fa in tempo a rispondere a tutti. L’imperativo è rapidità, ma non basta per una pagina che ormai esplode di pubblico.

In un contesto simile, che brucia tempi e sentimenti, come volete che venga percepito il codice di procedura penale? Ha l’odore della muffa alle pareti. Si viene travolti da un senso di inadeguatezza di fronte a certe ritualità. La Procura di Palermo, che indaga sul caso, chiede e ottiene l’incidente probatorio. Già il nome rimanda a qualcosa che sembra fuori luogo e fuori posto, anni luce lontano dall’habitat in cui si muovono i protagonisti. La spiegazione acuisce la sensazione di jet lag, ma tant’è: l’incidente probatorio è un istituto processuale con il quale si deroga alla regola che la prova si forma in dibattimento. Quando c’è il rischio che venga compromessa, la prova, da fattori o condizionamenti esterni allora si anticipano i tempi per cristallizzarla nella fase delle indagini preliminari. In soldoni, si fa una parte del processo prima che il processo abbia inizio, garantendo parità fra accusa e difesa. Il giudice, i pubblici ministeri, la parte civile, gli avvocati della difesa: tutte le parti possono fare domande e il testimone, in questo caso la giovane donna, risponde. Arriva così il giorno della convocazione. La vittima sale da una scala secondaria del Tribunale di Palermo, scortata da tre carabinieri che ne salvaguardano incolumità e identità. Non deve essere vista. Entra nella stanza che di solito ospita la camera di consiglio della Corte di assise al pianterreno del vecchio palazzo di giustizia. Al di là del muro, in aula, ci sono i sei indagati e i loro difensori. Si usa un video collegamento per evitare la vicinanza fisica. Loro possono vedere lei, e non viceversa. Vittime carnefici non devono incrociare lo sguardo. Tutto è formale, perché la forma è sostanza nei tribunali. Solo nei tribunali, però. Mezz’ora prima di varcare la soglia del Palazzo di giustizia la diciannovenne posta un video. Non nasconde né il volto, né il luogo dove si trova. Perché mai dovrebbe iniziare a farlo adesso. “Fumo dove non è permesso”, canta il trapper nella canzone che fa da sottofondo alla storia su Instagram. Lei è davanti allo specchio, la sigaretta accesa. Tra un cuoricino e un altro ha piazzato la scritta “Tribunale di Palermo”. Vuole far sapere che è lì. C’è chi la critica e che li attacca, con ferocia, e chi le sta vicino anche se da molto lontano. Il cantante Sfera Ebbasta, ad esempio, le ha inviato un messaggio. Sa chi è, la chiama per nome nel video che le ha girato perché la sua identità è segreta solo nel mondo dei giornali e della realtà in carne e ossa. I follower interagiscono. Sono migliaia, ancora una volta. Vivono perennemente on line. Ricevono l’input della convocazione. Non serve fare il turno per entrare in quella che è diventata la camera di compensazione del dolore di una ragazza che ha solo 19 anni. La sua è una storia durissima, e al contempo drammaticamente perfetta per i social. La genesi risponde infatti all’impulso irrefrenabile della condivisione. Qualcosa esiste solo se gli altri la vedono. Il cellulare diventa così uno strumento dell’orrore. La violenza è stata filmata con il telefonino dai uno dei sette indagati. La ragazza ha urlato “basta”, ma non si sono fermati. Le difese proveranno a dimostrare, al contrario, che i rapporti sessuali erano consensuali per arginare il rischio delle pesanti condanne che vanno da 8 a 14 anni di carcere. Il delitto viene contestato con più aggravanti.

Questo è ciò che avverrà nel processo che non tarderà ad iniziare, ma la vicenda va analizzata da un’altra angolatura. All’interno di un cantiere, uno dei tanti perennemente aperti a Palermo, lungo la passeggiata che guarda il mare, oltre una recensione di lamiera, sei ragazzi – il più piccolo ha 17 anni, il più grande 23 – consumano dei rapporti sessuali con una coetanea. Il settimo indagato partecipa in altra maniera. Impugna il cellulare in modalità video, con la torcia accesa per illuminare la scena. Filma e ride. Non può sapere che quel video diventerà la prova chiave contro sé stesso e contro tutti gli altri. Qualcuno prova a dirgli di smettere. Non smette. Realizza undici video di pochi secondi. Filma e nel frattempo invia messaggi audio via WhatsApp ad un amico per raccontargli in tempo reale cosa sta accadendo. Sente il bisogno di valicare il confine, non gli basta il recinto chiuso e maleodorante in cui si trova. I carabinieri annotano che in sottofondo si sentono “le urla di una ragazza e diverse voci di ragazzi”. Non serve aggiungere altro.

Qualcuno rinnova al “regista” la richiesta di cancellare i video che, però, restano nella memoria del cellulare che viene sequestrato. Diventerà la scatola nera in mano agli investigatori quando la denuncia della vittima darà il via alle indagini. Nella notte all’interno del cantiere il telefonino non è ancora fonte di prova. È una parte del corpo che si attiva come le altre per rispondere ad un impulso ben preciso. Senza il video il percorso mentale non sarà completato. Le cose, anche quelle per le quali si dovrebbe provare innanzitutto vergogna, esistono solo se si possono mostrare e condividere come un trofeo. Era accaduto altre volte in passato, sempre con la stessa ragazza, che i rapporti sessuali, questa volta consensuali a detta della stessa diciannovenne, venissero filmati.

Il passaparola è istantaneo. Poche ore dopo lo stupro un amico chiede a colui che ha fatto il video: “Lo giri pure a me”. Evidentemente sa già che qualcun altro ha visto uno degli undici spezzoni di video. Li cercano tutti. C’è chi ha creato delle apposte chat Telegram. Offre altra merce in cambio. E così gli investigatori oltre a ricostruire le fasi della violenza devono anche monitorare la rete per stoppare l’eventuale circolazione delle immagini che immortalano il gruppo sin dal momento in cui si sono incontrati alla Vucciria. Il mercato reso immortale dal celebre quadro di Renato Guttuso è l’immagine della decadenza. Frotte di giovani e meno giovani vi si danno appuntamento. Comprano alcol a buon mercato dai venditori abusivi che sottobanco smerciano pure la droga. La mafia stracciona controlla la piazza. I nuovi boss, malacarne di borgata, gestiscono il traffico e stabiliscono chi può collocare le bancarelle abusive e pretendono una parte dell’incasso.

La Vucciria compare spesso nei video con il quale la vittima della violenza racconta la sua quotidianità. Ne ha postato uno poco prima che facesse ingresso in aula e uno dopo avere lasciato il palazzo di giustizia. L’ultimo lo registra in aeroporto, nel tunnel verso l’imbarco. È accompagnata, ancora una volta, dai carabinieri. Almeno di loro non fa vedere i volti. Torna in comunità, in un posto che non si raggiunge né in auto né in treno. Anche la località è un dettaglio che i professionisti dell’informazione devono tenere segreto per ragioni di privacy e di sicurezza. La ragazza X, è tornata nella comunità X, che si trova nella città X. Nella vita raccontata sui social non ci sono filtri. Nessuno si indigna, si diventa complici o favoreggiatori di una intimità perduta. C’è solo un vuoto nel racconto per immagini. Sono le sei ore dell’incidente probatorio. Sei ore di domande e risposte. Non tutte ammesse per la verità. Il giudice per le indagini preliminari stoppa quelle sulle abitudini sessuali della ragazza e sulle sue precedenti relazioni. Gli avvocati ritengono che sia necessario scandagliare la personalità della vittima. Il giudice la pensa diversamente. Lo sconfinamento nella sfera privata non è processualmente necessario. In aula il confine resta netto. Altrove va in frantumi. Tutti i particolari finiscono in cronaca nei rotocalchi social e per buona pace di chi si affanna, per mestiere, a preservarli. “Ciò che per il bruco è la fine del mondo, per il resto del mondo è una farfalla»”, è la frase del filosofo cinese Lao-tzŭ. È l’accettazione di un cambiamento radicale, di una trasformazione profonda che costringe la regione a muoversi sull’orlo del precipizio.