E’ stato un Natale sui generis per Baldassarre Renda, direttore dell’Unità di Anestesia e Rianimazione dell’ospedale Cervello, che il 24 dicembre è stato ricevuto nell’abitazione palermitana del Capo dello Stato, Sergio Mattarella, per la consegna di un’onorificenza. Il titolo di commendatore al merito della Repubblica italiana è un riconoscimento, sottolinea Renda, per “il sacrificio di medici e infermieri che in questi due anni sono stati encomiabili. Questo momento ha suscitato in me grande emozione. Il presidente ha usato parole di elogio e gratitudine per lavoro dell’intero reparto e sarà uno sprone per i mesi, certamente difficili, che ci attendono”.

Fuori dal pronto soccorso del Cervello, infatti, da qualche giorno sono tornate le code. Di ambulanze. Omicron dilaga e la struttura è stata riconvertita quasi interamente: l’ultimo reparto a saltare è stato quello di Malattie infettive, che da un paio di giorni accoglie soltanto pazienti Covid. A risentirne sono soprattutto le cure ordinarie anche se, come sottolinea il primario di Anestesia e Rianimazione, “fin qui siamo riusciti ad assicurare il massimo delle cure a tutti i pazienti gravi”, talvolta smistandoli “in altre terapie intensive e in altre parti della città”, dato che di posto al Cervello non se ne trova più. Dei 16 posti letto ricavati nel reparto di Rianimazione Covid, 14 (a ieri) erano già occupati. Per la maggior parte (13) da pazienti non vaccinati. “Non nascondo una certa preoccupazione. Se i numeri dovessero aumentare – suggerisce il primario – si dovrà pensare a implementare altri presidi ospedalieri”. La coperta rimarrebbe comunque troppo corta.

Cos’è cambiato rispetto a un anno e mezzo fa?

“Nell’era pre-vaccino, si trattava di pazienti che fino al momento dell’intubazione erano coscienti, perfettamente in grado di comprendere le criticità. E spesso, consapevoli del rischio di andare incontro a un esito infausto, affidavano al personale sanitario i pensieri legati ai propri familiari. Oggi è diverso: abbiamo a che fare con gente che ha rifiutato il vaccino per un fatto ideologico, o magari per ignoranza o perché consigliato male. E che spesso rimane diffidente e ostile rispetto alle possibilità terapeutiche”.

Musumeci ha detto che il 70% dei ricoverati, a Palermo, non è vaccinato.

“Nel mio reparto il dato ha sempre sfiorato l’80-85%. Ora siamo alla quasi totalità. Il nostro paziente tipo è il settantenne non vaccinato. La cui prognosi non è affatto buona”.

Per chi finiva in terapia intensiva col Covid, almeno nelle precedenti ondate, non c’erano molte opportunità di sfangarla. Com’è cambiato il quadro?

“La terapia intensiva è un ambiente in cui – per il setting dei ricoveri e le tipologie di cure – la mortalità di norma è più elevata rispetto ad altri reparti. Col Covid questa tendenza è aumentata perché i pazienti arrivano con difficoltà polmonari che sono difficilmente dominabili. Talvolta abbiamo dovuto affidarli alle cure dell’Ismett, che interviene con l’ossigenazione extracorporea. Ci troviamo di fronte a casi limiti, che in buona parte dipendono dalle precedenti patologie, dalla comorbilità, dall’età. Tanti fattori possono influire sull’esito”.

Ma c’è anche una questione extra-Covid. Contrarre il virus e affollare gli ospedali, significa privare altri soggetti delle cure necessarie.

“Il paziente grave, anche se con maggiori difficoltà, finora ha trovato posto. Poi ci sono altri pazienti, magari con una patologia oncologica, che accedono tardivamente alle cure perché i pronto soccorso sono intasati e i reparti riconvertiti. E’ chiaro che se converti prima il reparto di Gastroenterologia, poi quello di Medicina, infine la Cardiologia, una buona fetta di persone resta fuori… Il problema esiste ed è rilevante. E dovrebbe far riflettere tutti quelli che rifiutano il vaccino. Questa gente ha grosse responsabilità”.

Qualche mese fa si faticava a organizzare nuove postazioni di intensiva e sub-intensiva per l’assenza di anestesisti. Ora come vanno le cose?

“C’è ancora carenza di anestesisti. L’ultimo concorso indetto dalla Regione, che ha coinvolto centinaia di giovani, ha consentito di coprire gli organici negli ospedali di periferia. Quelli che da noi lavoravano da libero-professionali o Co.co.co., sono andati via perché allettati da un contratto a tempo indeterminato. Così il problema s’è ricreato nei nostri ospedali. Stiamo cercando di sopperire con gli specializzandi, ma non possiamo negare che esistano delle criticità. L’attività extra-Covid e le sale operatorie ne risentono”.

Com’è cambiato il vostro ruolo durante la pandemia?

“Quando si parla di Covid la nostra attività prevalente è legata alla Terapia intensiva, cioè il reparto in cui vengono trattati i pazienti più critici, con le insufficienze respiratorie più gravi, che hanno bisogno di cure intensive e una degenza media abbastanza prolungata. L’urgenza, più che la sala operatoria, rappresenta il fulcro della nostra attività quotidiana”.

Crede che con questi numeri, e in attesa di raggiungere il picco, c’è il rischio di tralasciare le cure extra-Covid?

“Il pericolo c’è. L’impatto e gli effetti delle riunioni familiari di Natale, in terapia intensiva, si notano con due settimane di ritardo. Solo ieri abbiamo preso tre pazienti. E fuori dal pronto soccorso del Cervello c’era un discreto numero di ambulanze in fila. Se il trend dovesse confermarsi, o addirittura peggiorare, sarà necessario individuare altre strutture dedicate al Covid. Finora siamo noi, in parte il Civico, Partinico. Non credo che bastino”.