Un governo politico che mortifica, però, la politica stessa, intesa come classe dirigente di partito. L’ultimo ragionamento sopraffino di Totò Cardinale ha a che fare con la formazione dell’esecutivo targato Mario Draghi, “un uomo imperscrutabile o, meglio, un gentiluomo tutto d’un pezzo, con cui ho avuto contatti frequenti per tre anni”. Draghi era direttore del Dipartimento del Tesoro, Cardinale Ministro delle Comunicazioni del governo D’Alema, dal 1998 al 2001. Vent’anni dopo sono cambiate molte cose e, al termine di un incarico prestigioso ai vertici della Bce, il professore è diventato premier. Una volta che rischia di essere “devastante” per l’Italia: “Nulla sarà più come prima”, spiega Cardinale.

Perché?

“Draghi, che ha scelto in maniera assai libera all’interno dei partiti, ha mantenuto il vero potere per sé. Non ha ceduto nemmeno la delega dei rapporti con l’Europa. E ha scelto delle figure di rilievo, a lui molto amiche, alla guida dell’Economia o nelle vesti di sottosegretario alla presidenza. Inoltre, anche la nomina di Marta Cartabia alla Giustizia è strategica: si tratta di una donna che ha un rapporto altrettanto forte con il presidente della Repubblica. Questo è un governo dei presidenti”.

Nei ministeri di peso magari no, ma la presenza dei partiti è tangibile: Forza Italia e la Lega, fuori dal precedente esecutivo, hanno preso tre ministri a testa.

“Insisto: non c’era mai stata una sconfitta così netta della classe dirigente. Anche il governo Ciampi, motivato dall’emergenza economica, fu un governo politico con una connotazione di centrosinistra; Monti arrivò per la stessa ragione: cioè ridurre la spesa ed evitare il default. Ma trovò la reazione di un pezzo della politica: ricordo quanto fossero recalcitranti Berlusconi e Forza Italia. Stavolta è diverso. Dopo che la politica ha fallito nel tentativo di creare un nuovo governo, è subentrata la necessità di aggrapparsi a uno dei dieci uomini più stimati al mondo, per garantire al Paese la possibilità di una ripresa grazie alle risorse dell’Europa. La scelta di Draghi, determinata dal Capo dello Stato, è slegata da un vincolo partitico. La Borsa e i mercati l’hanno subito premiata”.

I partiti non sono stati in grado di esprimere un premier o una maggioranza, e inoltre vengono balcanizzati dagli eventi.

“Parliamo di un’operazione che non solo limita lo spazio della classe dirigente, ma compie delle scelte all’interno dei partiti stessi. Nella Lega, ad esempio, vince l’area più europeista e viene premiata la capacità di Giorgetti di mantenere un buon rapporto con l’imprenditoria del Nord. Anche il ministro Garavaglia è vicino al nuovo ministro dello Sviluppo, mentre la ministra Stefani è sulle posizioni di Zaia. Non credo che Salvini ne esca bene. In Forza Italia avviene più o meno la stessa cosa: si impone l’area di Brunetta e Gelmini, certamente più europeista rispetto a quella di Tajani e Ronzulli”.

E il Movimento 5 Stelle?

“Somiglia sempre più a un partito. Vince la corrente che aveva provato a “normalizzarlo” dall’interno: Di Maio, Fico e Patuanelli hanno tenuto la barra dritta. Ne viene fuori un governo politico. Ma io, da politico e da siciliano, ne sarei mortificato. Da cittadino invece sono contento”.

Qual è l’orizzonte temporale dell’esecutivo?

“Qualcuno dice un anno, per consentire a Draghi di essere eletto presidente della Repubblica. Ma io dubito che sia un governo sia cucito su misura per un solo uomo e che entro il 2022 possano chiudersi tutti i dossier aperti. C’è da portare a termine un mandato, che la Costituzione vuole duri fino al termine della legislatura”.

Il mandato di Sergio Mattarella, però, scade il prossimo anno. Che succederà?

“La mia risposta la potrebbe sorprendere, ma credo che Mattarella vada rieletto. Più per una questione di rispetto sostanziale, che non formale, della Costituzione. Il prossimo Capo dello Stato sarà votato da 1000 parlamentari, ma dopo un anno, per effetto del referendum costituzionale, se ne ritroverà 600. Invece, dopo aver rieletto Mattarella con le leggi vigenti, questo potrebbe dimettersi come ha già fatto Napolitano, lasciando al nuovo Parlamento, nella sua nuova composizione, la possibilità di scegliere il nuovo presidente della Repubblica”.

Perché, dopo il governo Draghi, nulla sarà come prima?

“L’esempio più calzante è Salvini. Non escludo che accadano fatti in grado di mettere in discussione la sua linea e la sua leadership. Adesso sta facendo le capriole per non rimanere spiazzato, ma potrebbe non vedere di buon occhio un avvicinamento al Partito Popolare Europeo. Che invece semplificherebbe i rapporti con Forza Italia. Che, a sua volta, sarà condizionata da Berlusconi. Forza Italia è Berlusconi, ed è stata forte perché era forte l’influenza del Cavaliere. Ma oggi l’età rischia di giocare un ruolo determinante anche in questa partita. Diciamo che potrebbe verificarsi una convergenza al centro, fra l’ala giorgettiana e quella lettiana (di Gianni Letta), lasciando che la Meloni risucchi le figure più oltranziste, populiste e antieuropeiste del centrodestra. Con il risultato di ridisegnare una geografia che anche in Sicilia potrebbe portare a nuove aggregazioni”.

Ci dia una chiave.

“La classe dirigente che vuole evitare l’emarginazione deve adattarsi in maniera veloce, interpretando il cambiamento che bussa alla porta”.

E in Sicilia chi dovrebbe adattarsi per il primo?

“Non c’è dubbio che l’area più sensibile è quella del centro, dove prevalgono i cittadini che amano partecipare, ragionare, confrontarsi. Che amano la politica del dialogo e non quella degli insulti, sebbene a volte il malessere ha determinato condizioni per le quali molti di loro non sono andati a votare o si sono lasciati trasportare verso soluzioni più estreme. Ma l’unico scopo era dare un calcio nel sedere alla classe dirigente che non aveva colto questo disagio”.

Crede che l’assenza di ministri sia un brutto segnale per la Sicilia?

“Non credo che una politica che guardi al Mezzogiorno e alla Sicilia possa essere condizionata dai ministri di quell’area geografica in particolare. Una presenza autorevole – è vero – può determinare gli indirizzi, un maggior impiego di risorse. Ma ci sono stati dei governi, in passato, che pur con dei ministri del Sud, hanno ignorato l’Isola quasi del tutto. Mi riferisco ai governi Berlusconi, dov’era prevalente un’idea di Paese che muoveva dal Nord, dall’economia sana, dalla dinamica degli investimenti, dalla possibilità di essere più vicini ai centri nevralgici della spesa, cioè le aree ricche del centro Europa. E aveva accantonato, piuttosto, la politica del Welfare State, propria dei governi democristiani e di centrosinistra. Draghi non farà quest’errore”.

Ma ci sono otto ministri lombardi…

“Draghi sa bene che l’economia del Mezzogiorno rischia di essere una zavorra per il resto del Paese. Quindi, cercherà di alleggerire per dare velocità al resto del convoglio. La scelta di Andrea Orlando al Ministero del Lavoro mi sembra un’ottima garanzia per una politica di sostegno ai più deboli, così come la scelta di Giovannini alle Infrastrutture. Mi andrebbe bene anche Cancelleri come suo vice… E’ della mia provincia e non lo conosco granché, ma sarà utile avere una buona squadra di sottogoverno”.

Se è questo che pensa – cioè che i ministri non fanno gli interessi delle singole regioni – perché da siciliano ha detto di sentirsi mortificato?

“Perché una regione che non ha ministri vede mortificati la sua classe dirigente e i suoi cittadini, i quali non hanno avuto dei rappresentanti in grado di superare questa griglia, che altri hanno superato, per entrare a far parte di in un governo autorevole”.

Non abbiamo ancora parlato di Renzi. Ha vinto o ha perso, secondo lei?

“Valutando gli effetti della crisi, dovrei dire che ha determinato le condizioni per far nascere il governo Draghi. Ma il grande artefice, secondo me, è stato il presidente della Repubblica, che è stato all’altezza della situazione e ha determinato le condizioni perché il Paese non scivolasse nel baratro delle elezioni anticipate. Renzi, invece, ha fatto la cosa che sa fare meglio: demolire. L’amore di sé prevale sull’amore per il Paese. Ha pensato più alla sua immagine che non agli interessi generali, giocando la partita sul ciglio di un burrone. A correre il rischio di venire giù era l’Italia, che in caso di elezioni avrebbe perso tempo e risorse. E poi faccia dire un’ultima cosa…”.

Ne ha facoltà.

“Siccome il politico deve fare i conti con quello che porta a casa, il primo a uscirne mortificato, con la conferma di un solo ministro (Elena Bonetti), è proprio lui”.