E’ tempo di migrazioni, direttori di teatro che vanno, direttori che vengono. A Catania ad esempio, il glorioso Teatro Stabile ha celebrato da poco un nuovo e sconosciuto arrivo, tale Sicignano Laura, sconosciuta appunto ai tanti del settore, che in barba ai ben più poderosi curricula di altri cinquantasette partecipanti, è stata nominata – con una chiamata divina direttamente voluta dal notaio Presidente Saggio Carlo – a capo del prestigioso Ente etneo. In quel contesto, partecipava al concorso direttoriale l’errante Ovadia Moni, che per la seconda volta – aveva tentato due anni prima – veniva snobbato dall’Ente e dai soci che non lo ritenevano così accattivante per la guida del più importante, almeno fino a qualche anno fa, teatro di prosa della Sicilia.

Apriti cielo. Con i suoi settantadue anni suonati – che, sia detto per inciso, per legge non gli potrebbero consentire di ricoprire la carica di direttore di un ente pubblico come è un Teatro Stabile – se la prende con la solita ingiustizia delle ingiustizie che non riconosce il talento anticonformista, antifascista, anti tutto di cui egli è portatore sano. E chiama a difenderlo un polemista d’eccellenza, Sgarbi Vittorio, per far si che la Sicilia, l’Italia, il mondo intero si indigni e scenda in piazza a circondare il Parlamento italiano per questo ennesimo oltraggio all’Arte e alla cultura Yiddish, Pop e Sefardita da lui così degnamente incarnate. Si attende, da lì a poco, il sollevamento popolare. Purtroppo il Popolo ha altro cui pensare in quel momento e declina con crudele indifferenza l’appuntamento.

Non resta che emigrare, e approdare ad altri lidi meno indifferenti, in un’ errante ricerca di stabilità che il ramingo Ovadia vuole non tanto per sé, quanto per il suo famiglio Incudine Mario, al quale egli vuole “preparare il futuro… Per me è un figlio, ha l’esatta metà dei miei anni ed è un artista prodigioso, un mostro in campo musicale, un bravissimo attore e, a Enna, si è messo a gestire un teatro.”

Che volete, amore di padre è. E al cuore non si comanda. L’esperienza comune di Caltanissetta e Marsala, dove Ovadia dirige a suo dire gratuitamente, ma che in realtà faceva da granaio alla stessa casa di produzione – Promomusic di Marcello Corvino, che da un lato produce Ovadia e Incudine – non è andata poi così bene, chiudendosi tra le polemiche.

Allora cammina che ti cammina, approda a Palermo, nella Capitale. Ad attenderlo alle porte del castello trova due rappresentanti della nouvelle vague culturale palermitana: Orlando Leoluca, dominus della città e Alajmo Roberto, direttore del Biondo Stabile Teatro che immediatamente apre al Genio e al famiglio lo sportello della cassa – quanto? mistero – associandoli ad una produzione nuova e accattivante come il Liolà di Luigi Pirandello.

Ci si conceda una brevissima digressione su Liolà, così lucidamente recensito dalla critica teatrale che ne ha ravvisato il pasticcio incomprensibile realizzato dai due cavalieri di ventura. Qualcosa insomma che, dal punto di vista scenico, Incudine ha firmato come, nell’ordine, riduzione e adattamento, regia, musiche originali, scene. Tuttavia neanche questa strabordante poliedricità ha potuto salvare quel non spettacolo. Una pupiata musicale che ammiccava all’Ubu Roi di Alfred Jarry, senza tuttavia che gli autori in questione sapessero chi fosse Jarry. Insomma un disastro annunciato che tuttavia ha lisciato le penne pavonesche di Alajmo come del padrone di casa Orlando.

Questo progetto, all’atto dell’offertorio alajmiano era nato come un progetto di Moni Ovadia, Mario Incudine e Sebastiano Lo Monaco. Passati alcuni mesi, e dopo una bizzarra e disinvolta versione data ai piedi della Valle dei Templi di Agrigento, con regia a firma di Lo Monaco, diventa, per magarìa tutta palermitana: Liolà da Luigi Pirandello riduzione e adattamento di Mario Incudine, Moni Ovadia, Paride Benassai, sostituendo il povero Lo Monaco con tale Benassai Paride. Risultato? Una causa legale dagli incerti sviluppi che Lo Monaco avrebbe già preannunciato contro Ovadia e il suo famiglio. Ma si sa, per gli erranti la memoria è uno strumento delicato che si affatica via via che il passo incede, e può capitare dunque di perdere per strada qualche compagnuccio di viaggio cui si è giurata fedeltà.

Per fortuna c’è Orlando. Parrebbe infatti che il Gran Visir palermitano, colto da provincialismo meridionale, affascinato dal conformismo dell’anticonformista Ovadia, ammaliato dal verbo del “funambolo di successo” che chiede la mobilitazione attorno al Parlamento italiano, che spara a zero su Israele travestito da ebreo magnetico e affabulatore, pare gli abbia promesso ciò che il Sommo Attore finora non è riuscito ad ottenere altrove: la direzione del Biondo Teatro Stabile di Palermo, rimasto purtroppo anche questo secondo giro al palo dei TRIC (Teatri di Rilevante interesse culturale), senza potere diventare Teatro Nazionale. Ma se ne parlerà a novembre, quando scadrà formalmente l’incarico di Alajmo.

Intanto si fa festa nell’hoyz dell’yiddish Ovadia Salmone, detto Moni. Una festa di popolo, va da sé. Con Orlando alle tastiere, Alajmo alle percussioni e Incudine alla chitarra con le sue immancabili tarantelle. Canti e balli a volontà. Viva Palermo e Santa Rosalia.