E’ trascorso poco meno di un mese da quando i dipendenti delle ex province siciliane, da Palermo a Ragusa, sono scesi in piazza del Parlamento, di fronte al palazzo dei Normanni, per inveire contro la politica. Regionale, nazionale, a tutti livelli. Che è parsa “nemica” di questi enti intermedi (oggi si chiamano Liberi Consorzi o Città Metropolitane) che la riforma Delrio, con la complicità di Rosario Crocetta e del Movimento 5 Stelle, nel 2013 ha spazzato via senza prevedere il benché minimo riordino delle competenze. Quindi: se da un lato i dipendenti protestano perché gli enti non riescono più ad approvare i bilanci e le tesorerie hanno bloccato i pagamenti, dall’altro i cittadini s’indignano. Perché il livello dei servizi – dalla rete viaria secondaria, passando per l’edilizia scolastica e i servizi erogati alle fasce deboli – sono venuti meno. E mentre sulla pelle dei siciliani si consuma il dramma, a Roma c’è un disegno di legge, che porta in calce la firma di Nino Germanà (tra i co-firmatari c’è pure Stefania Prestigiacomo), che attende da mesi di essere discusso in Commissione Bilancio.

Prevede l’abolizione del prelievo forzoso da parte dello Stato: 277,1 milioni, pari al 42% delle uscite degli enti siciliani, solo nel 2018. Dando un’occhiata più ampia ai numeri, sorprende come le ex province siciliane – tutte insieme – abbiano un disequilibrio finanziario pari a 155,4 milioni di euro, come segnalato dal deputato regionale dell’Udc, Vincenzo Figuccia. Sono tutte in pre-dissesto, ad eccezione di Siracusa che ha rotto l’argine. Mentre è stata singolare la scelta di Cateno De Luca, qualche settimana fa, di mandare in “ferie forzate” una larghissima maggioranza dei dipendenti della Città Metropolitana di Messina: “Sulle ex province il governo Conte continua a fare melina. Noi siamo qui a marcire – spiega Figuccia, che è stato per 40 giorni anche assessore all’Energia del governo Musumeci –. Sono le 9 ex province della Sicilia rimaste appese al filo della speranza, ma dove il disequilibrio finanziario globale è pari a 155 milioni. Una situazione che ha compromesso l’erogazione di servizi, in particolare la gestione della rete stradale di competenza, l’assistenza ai disabili, il supporto alle scuole di secondo grado, l’edilizia scolastica”.

Sa che per giovedì la commissione Bilancio della Camera aveva fissato un’audizione con Musumeci e Armao, ma alla fine ha deciso di cancellarla? Perché questa melina?

“Il governo nazionale è impegnato sul tema della campagna elettorale per le Europee e credo che, purtroppo, non voglia far arrivare dei regali a una regione che è governata da una coalizione di centrodestra, in cui Lega e Cinque Stelle, forse, non si rivedono. Preferiscono gli slogan come quelli sul reddito di cittadinanza, o sulla misura del buco da fare nella montagna (riferimento alla Tav), e lasciano inevase le nostre richieste”.

La Regione può fare di più? Il presidente del CSA lamenta scarsa trasparenza sugli stanziamenti regionali. Stando a un decreto del Consiglio dei Ministri, dal 2017 mancherebbero all’appello 70 milioni l’anno…

“Penso che il presidente della Regione, che è stato anche presidente della provincia di Catania, abbia a cuore questa battaglia. Certo, la Regione deve fare di più, anche se sappiamo benissimo in quali condizione economiche versa. Però deve recuperare delle somme in ogni modo possibile: evitando gli sprechi, razionalizzando i costi delle partecipate. Ma resta il fatto che è inutile proseguire in questo braccio di ferro con lo Stato che ci vede perdenti. Alcune cose come il taglio dei trasferimenti e il prelievo forzoso restano. Altre, come la spalmatura del debito in trent’anni, non si riesce ad ottenere. Tutti devono fare la propria parte”.

Qual è la colpa che imputa maggiormente alla riforma Delrio?

“È sotto gli occhi di tutti il fallimento della legge Delrio che ha presuntuosamente ostentato lo slogan della razionalizzazione a tutti i costi, generando di fatto, danni e costi praticamente triplicati. Alla base della sua applicazione, purtroppo, manca il rilancio delle competenze. Mi riferisco a tanti servizi essenziali, come la viabilità. Provi a fare una passeggiata per le strade provinciali di questa Regione. Si renderà conto che alcuni centri non sono più raggiungibili, risultano praticamente isolati. Ma questo capitolo, assieme a tanti altri, è stato lasciato in bianco”.

Il 30 giugno si torna al voto. I presidenti dei Consorzi e i sindaci delle Città Metropolitane saranno scelti da altri sindaci e dai consiglieri comunali. Lei, invece, continua a perorare l’elezione diretta. La crisi delle ex province è anche un problema di rappresentanza?

“In questo Paese, deputati e senatori vengono eletti con l’uninominale, cioè un sistema “bloccato” in cui si diventa parlamentari senza il vaglio della condivisione nei territori. Poi, esclusa la deputazione regionale, si passa ai consiglieri comunali dei piccoli paesi. Vuol dire che in mezzo c’è il vuoto. Il vuoto significa che non c’è nessuno che si fa portatore delle istanze dei territori, mentre i consiglieri provinciali rappresentavano le antenne sensibili, capaci di portare le istanze dentro quell’istituzione. A livello nazionale, da parte della Lega, è stato presentato un disegno di legge che va verso l’elezione diretta. Credo ci siano tutte le condizioni per tornare a ragionare in quest’ottica”.

Peccato che venga ritenuto uno spreco…

“Gli sprechi stanno nella mancata razionalizzazione della spesa pubblica, nell’apparato amministrativo troppo lento, in una burocrazia che si aggroviglia su se stessa. Quello che prima decidevano i consigli provinciali oggi viene deciso nell’isolamento di una stanzetta, dove l’unico dirigente del servizio ha responsabilità enormi”.

Dei servizi, deficitari, abbiamo già detto. Ma ci sono numerosi dipendenti che da febbraio non percepiscono nemmeno lo stipendio.

“E io ne conosco parecchi, che sono anche professionisti di alto livello: tecnici, ingegneri, architetti, ma anche educatori o personale che lavora nell’ambito dei servizi sociali. Molti di essi hanno contratti vecchi, mai aggiornati o rinnovati. Se a questo si aggiunge la questione della tesoreria, che hanno chiuso i rubinetti, la situazione diventa insopportabile. Ecco che si rischia di trasformare questi enti, che dovrebbero essere il fiore all’occhiello del decentramento in una regione a statuto speciale come la Sicilia, in carrozzoni. Bisogna rimettere mano all’applicazione della riforma Delrio e garantire il buon funzionamento di una struttura di cui dovremmo andare orgogliosi”.

Lo ha detto anche lei che fra Stato e Regione non corre buon sangue. Adesso si fa strada anche l’ipotesi del regionalismo differenziato, in cui a Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna si potrebbero riconoscere nuove competenze e maggiori introiti derivanti dalla trattenuta delle tasse. Cosa ne pensa?

“Io prima avrei provveduto a recuperare alcuni settori dell’economia che rischiano di andare in pezzi: mi riferisco alle infrastrutture, all’agricoltura, allo sviluppo delle imprese. Il regionalismo differenziato altro non è che un modo per allargare il divario tra le regioni del Nord e quelle del Sud, con alcune – su tutte Sicilia, Campania e Puglia – che rischiano di diventare sempre più fanalino di coda. A vantaggio di altre regioni che, da Bossi in poi, hanno fatto della secessione il loro mantra. Ecco, questo tentativo di autonomia si sta traducendo in una forma di strapotere che penalizza sempre gli stessi”.