Non ce n’è per nessuno. Le famiglie siciliane spopolano nella letteratura italiana, riuscendo tra l’altro nell’ardua impresa di mettere d’accordo pubblico e critica. Saghe familiari per tutti i gusti: ricchi e poveri, aristocratici e borghesi, marinai e imprenditori, deputati e mafiosi. Una vera democrazia delle lettere, senza snobismi e senza censura, dove ogni classe sociale può dirsi a giusto titolo rappresentata: siano essi disgraziati (I Malavoglia di Giovanni Verga), borghesi (I leoni di Sicilia di Stefania Auci), nobili (I Viceré di Federico De Roberto e, sebbene non esattamente una saga familiare, Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa): nel gran varietà delle lettere c’è posto per tutti. Ci si spinge fin sul versante illegale della società. Già I Viceré stanno in abile equilibrio sul crinale della legge, ma con il Padrino di Mario Puzo si giunge in vetta, quantunque in trasferta: sempre di Siciliani si tratta, ma negli Stati Uniti. Legami di sangue, codici d’onore, odi, amori, gelosie, dolori, simpatie, incesti, incomprensioni, ostracismi, nostalgie, disgrazie, esili, solitudini e successi, purché visti attraverso il succedersi delle generazioni, tengono attanagliato il lettore.

Evidentemente il susseguirsi delle generazioni in Sicilia – tallonato solo dalle vicende ebraiche (I Moncalvo di Enrico Castelnuovo, recentemente riproposto da vari editori; Il giardino dei Finzi Contini di Girogio Bassani; Qualcosa sui Lehman di Stefano Massini) – ha una portata narrativa speciale, emblematica. Legami più stretti? Temperamenti più sanguigni? Teste calde? Passioni più violente? Decisivi sono i cambi repentini di status. Le famiglie siciliane sembrano vivere su un ottovolante: su e giù per la scala sociale, manco fosse uno scivolo o un ascensore. Dalle stalle alle stelle and back nel volgere – paradigmatico – di tre generazioni. Dinastie millenarie che vanno in frantumi nel giro di qualche decennio. Imperi sorti dal nulla in un battito di ciglia. Fallimenti che paiono una masculìata. Ascese sociali col turbo. Gli scrittori intercettano i loro personaggi un attimo prima della scalata o viceversa appena imboccata la strada della rovina, per narrarne l’ascesa o l’inesorabile declino. Nell’800, secolo di fiducia nel progresso, nelle scienze, nelle grandi imprese e nelle rivoluzioni, gli scrittori – il maestro del genere Mann o il bastian contrario Verga – prediligono il piano inclinato verso la catastrofe. Così ancora nel’900 (Tomasi, Bassani). Al contrario, gli autori contemporanei, forse per seminare un po’ di speranza in tempo di crisi, guardano più volentieri alle scalate (Auci, Massini).

A riportare alla ribalta l’epopea familiare siciliana, il successo editoriale dell’estate: I leoni di Sicilia, la saga dei Florio, che almeno nella prima parte (ne sono previste due) racconta la vertiginosa ascesa degli imprenditori calabri trapiantati in Sicilia. Un tormentone di articoli, interviste, fascette squillanti che hanno reso la Palermo dell’800 the place to be. All’estremo opposto, un fitto silenzio ha accompagnato i sessanta anni dalla pubblicazione (e relativo premio Strega) di Il Gattopardo. All’estero un profluvio di studi, saggi, convegni, in Italia “poca nebbia di memoria” lamenta Gioacchino Lanza Tomasi, figlio adottivo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Sic transit gloria mundi. Per qualcuno che sale, c’è sempre qualcuno che scende, e non solo nei romanzi a quanto pare.

Così va il girotondo dell’editoria. D’altronde il posto sugli scaffali è quello che è, ci informano i librai. E anche le pagine dei giornali son quelle che sono, aggiungiamo noi. A I leoni di Sicilia va riconosciuto il giusto merito di aver sdoganato in Italia il romanzo storico d’appendice. Da anni pilastro dell’industria editoriale anglosassone, nel nostro paese è sempre stato snobbato da addetti e pubblico. Quest’estate invece non solo i Florio erano sulla bocca di tutti, ma – evento straordinario – erano sotto tutti gli ombrelloni. E questo, in un paese che notoriamente non legge, è un già un risultato strepitoso.

Poco importano dunque le svariate inesattezze che costellano il romanzo. Ad esempio, il terremoto del 1799 con cui si apre il racconto non è mai accaduto. Ad un romanzo che trascina migliaia di lettori nel vortice della lettura e nel cuore della storia siciliana vanno concesse delle attenuanti, che poi son licenze poetiche.