Avranno diciotto, diciannove anni. I maschi hanno i capelli un po’ arruffati e i bermuda, lo zaino a tracolla su una spalla. Le ragazze quell’eleganza innata di chi riesce a sembrare bella anche con la gonna viola, la maglietta blu e le scarpe marrone. Si sforzano di parlare in italiano, al bar chiedono “capusino e cornetto al pistaccio”, pagano con le carte di credito anche se sono pochi spiccioli. Poi li vedi seduti tutti insieme intorno al tavolo, a chiacchierare, scherzare, sorridere. È agosto, saranno in vacanza. Ma osservandoli mi piace pensare che siano studenti, a Palermo per completare gli studi. Mi piace pensare che stanno crescendo coltivando i loro sogni, il loro desiderio di conoscere ed esplorare non solo attraverso i libri. Rivedo in loro i sogni di quando, ragazzina, mi sarebbe piaciuto fare i bagagli e trascorrere un periodo all’estero.

Poi sabato mattina passi davanti al Pagliarelli, dev’essere giornata di colloqui. Ci sono uomini e donne in attesa, sotto il sole e sull’asfalto bollente. E ci sono ragazzini, adolescenti con jeans e zeppe, chini sugli smartphone mentre aspettano anche loro. Ripenso a quei ragazzi stranieri e guardo questi. Penso che a questi è toccato un genitore che è finito in galera, che ha rubato o spacciato o ucciso o truffato o chissà che. Che lo ha fatto infrangendo la legge. Ma la condanna non è solo loro, perché hanno anche condannato questi figli. Li hanno condannati ai sabato mattina di agosto in viale Regione siciliana ad aspettare, alle sale colloqui, ai cancelli che si richiudono alle loro spalle. Li hanno condannati a una vita senza sogni. Mentre c’è un gruppo di loro coetanei che arrivano dalla Romania, dal Belgio, dalla Spagna e invece i loro sogni li stanno avverando.